Pangboche. Il monastero dello Yeti

Il nome Yeti è l’insieme di due sillabe tibetane: ye-ti, “quella cosa”. Il nome Yeti è l’insieme di due sillabe tibetane: ye-ti, “quella cosa”. Uno scalpo ritenuto appartenente all’abominevole uomo delle nevi è custodito sotto una teca di vetro presso il monastero buddhista di Pangboche (Nepal) a 3.985 metri di altitudine. Il 19 marzo 1954, il quotidiano «Daily Mail» pubblicò un articolo che descriveva una spedizione intenta a ottenere campioni di peli di uno scalpo trovato nel monastero di Pangboche. I peli furono analizzati da un esperto in antropologia e Anatomia Comparata, il professor Frederic Wood Jones.

Una mano dello Yeti è stata rubata dal monastero. Secondo i tibetani esistono due specie di yeti: la prima chiamata Dzu-Teh (che letteralmente significa grande cosa), sarebbe composta da individui enormi che possono superare i due metri e mezzo; la seconda, invece, si riferisce a esemplari più piccoli, che non superano i centocinquanta centimetri e sono chiamati Meh-teh. Alcuni ricercatori pensano che possa trattarsi di uomini che vivono in isolamento; questa teoria però non giustifica le grandi orme trovate in diverse occasioni. C’è un altro cuoio capelluto yeti in mostra a nel monastero del villaggio di Khumjung.

Pangboche è uno dei più antichi monasteri nepalesi della regione del Khumbu. Si pensa che Il Buddhismo sia stato introdotto nella regione del Khumbu verso la fine del XVII secolo dal Lama Sange Dorjee. Secondo la leggenda, il Lama ha sorvolato l’Himalaya e atterrò su una roccia a Pangboche e Thyangboche, lasciando le sue impronte incorporate sulla pietra. La mano e la cima del cranio sono state rubate negli anni Novanta dal monastero nepalese. La storia è ancora più avventurosa e risale agli anni Cinquanta, quando Peter Byrne, che guidava una spedizione alla ricerca della leggendaria creatura, arrivò al monastero di Pangboche. Secondo Byrne il cranio dello yeti era un falso, fatto con pelle di capra o antilope. Tuttavia la mano alimentava una speranza: nessuno scienziato era riuscito a spiegarne l’origine.

Un pilota neozelandese – Mike Allsop – ha portato il 30 aprile 2011 la replica di un teschio e di una mano di yeti, reperti rubati negli anni Novanta. Allsop ha dichiarato: «Voglio aiutare il monastero e far sì che torni ad avere una fonte di introito». In Siberia sta nascendo un istituto dell’Università statale di Kemerovo specializzato nello studio dello yeti. Il progetto è guidato dal dottor Igor Burtsev. Nella zona del monte Shoria sembra che ne vivano addirittura una trentina. Secondo Burtsev, gli yeti sono uomini di Neanderthal sopravvissuti all’estinzione.

Giorgio Nadali