Induismo. L’onesta ricchezza è un diritto

Nell’Induismo la ricchezza è divina. Lakshmi, la dea della ricchezza e abbondanza è venerata da tutti. Tutti gli dei dell’induismo vivono nell’opulenza. Anche se Il dio Shiva è un dio ascetico, è il signore dell’abbondanza. Shiva premia ampiamente quelli che lo adorano con offerte materiali e spirituali. Nella creazione, la ricchezza è un aspetto della natura.

La ricchezza va usata per servire gli scopi di Dio, non il male. Purtroppo, nell’età delle tenebre (Kaliyuga) gran parte della ricchezza è controllata dalle forze del male. Esse lo usano per accumulare più ricchezza e porre in un angolo tutte le risorse del mondo. Quindi, vediamo che le persone giuste soffrono e le persone malvagie godono di potere e lusso. Quando l’avidità spinge le persone a guadagnare ricchezza in eccesso di cui non hanno bisogno, la ricchezza diventa un potere malvagio. Tuttavia, quando il servizio agli altri diventa il movente, la ricchezza diventa uno strumento divino e porta a uno scopo buono. In mani giuste ricchezza è utile alle finalità della creazione, come strumento di Dio che aiuta le persone a vivere secondo il dharma – la legge morale – e come suoi veri devoti camminare sul sentiero del karma yoga. Nelle mani sbagliate la ricchezza diventa una forza del male e delle tenebre e provoca dolore e sofferenza per gran parte della gente.

Così, essendo uno strumento della natura – Maya – la ricchezza serve sia il bene sia il male. Delude chi la usa per il male, ma aiuta coloro che sono puri. Dà loro la libertà di godere di pace e felicità e di servire Dio contribuendo a preservare l’ordine e la regolarità della vita. Nell’Induismo, la ricchezza è considerata divina e un requisito essenziale per la conservazione e la continuazione della vita sulla terra. Dio è descritto nei Veda come il creatore e la fonte di tutto. Pertanto, egli è anche la fonte di tutta la ricchezza e di tutta l’abbondanza. La sua abbondanza materiale è rappresentata da Prakriti, la dea Madre. Lei è associata al suo potere e appare in ogni manifestazione di Dio, come la sua forza dinamica – la Shakti. Lei è la fonte della conoscenza in associazione con Brahman, la fonte della ricchezza in associazione con Vishnu, la fonte del potere rigenerativo in associazione con Shiva. Così, Saraswathi, Lakshmi e Parvati sono considerate le risorse triple di abbondanza nell’universo. Saraswathi illumina. Lakshmi arricchisce e Parvati  dà forza. L’Induismo non considera la ricchezza come un male in sé. La ricchezza diventa un male solo quando è guadagnata ignorando il dharma (legge morale) e utilizzata per scopi diversi dal bene. La ricchezza (artha) è anche considerata uno dei principali obiettivi della vita umana, da perseguire dagli esseri umani che occupano le funzioni di capofamiglia (grihastas). Coloro che scelgono di vivere come capofamiglia devono avere ricchezza per adempiere vari doveri obbligatori. Non sono tenuti a vivere per se stessi, ma per il bene degli altri. Devono guadagnare ricchezza per mantenere le loro famiglie e servire gli altri attraverso il cinque sacrifici quotidiani (karma nitya) vale a dire sacrificare agli dei, agli esseri umani, agli antenati, alle piante e animali e a Dio.

Inoltre, devono prendersi cura delle loro famiglie, prendersi cura di loro progenie e mantenere le loro famiglie come parte del loro dovere di garantire l’ordine e la regolarità del mondo. Essi sono inoltre tenuti a servire gli ospiti, gli anziani, aiutare i poveri e i bisognosi, nutrire gli studenti e gli asceti che li visitano con l’elemosina, la carità ai templi e altre istituzioni, il culto degli dei e così via. Fanno parte dei compiti obbligatori dei padroni di casa, i quali hanno bisogno di ricchezza. Quindi, guadagnare ricchezza per un padrone di casa è anche un dovere obbligatorio, e incorrerà nel peccato se lo trascura.

Coloro che rinunciano alla vita e vivono come asceti non hanno questi obblighi, ma chi sceglie di rimanere nella società e vivere come padroni di casa che hanno una famiglia propria, dovrebbero osservare questi cinque compiti, in modo che il mondo possa rimanere in buon ordine, e tutti possano vivere pace sulla terra. Come dichiara la Bhagavadgita, quelli che vivono per se stessi, senza servire gli altri e Dio, in verità mangiano il peccato. Un padrone di casa è molto vulnerabile a un cattivo karma, dal momento che ha a che fare con i problemi della vita reale, guadagnare soldi per mantenere la sua famiglia, vivere la sua vocazione e interagire con la società. La natura stessa della sua vita richiede danneggiare o ferire gli altri intenzionalmente, con parole, pensieri o azioni. In altre parole, i padroni di casa non possono evitare un cattivo karma, in qualunque modo essi vivano. L’unico modo per sfuggire alle conseguenze delle loro azioni è di vivere disinteressatamente al servizio degli altri e di offrire le loro azioni a Dio come sacrificio.

In altre parole, non usare la ricchezza per fini egoistici o per rafforzare l’ego, ma per servire Dio e gli altri, che sono aspetti del divino. Prendi ciò che è tuo, ma non quello che non ti appartiene. Nella tradizione induista prendere ciò che non appartiene è considerata un furto. Nel guadagnare ricchezza, non infliggere dolore e sofferenza agli altri e non sfruttarli. Ancora più importante, quando si cerca la ricchezza materiale occorre lasciare che il desiderio sia guidato da un essere superiore, piuttosto che dall’avidità e dall’egoismo. Vivere in tutta comodità o avere una ricchezza eccessiva non è peccato. Tuttavia, lo è utilizzare la ricchezza per scopi malvagi. Coloro che accumulano ricchezza attraverso il male facilmente incorrono nel  peccato e ne soffriranno le conseguenze. La prosperità è uno dei principali attributi del Signore dell’Universo (Isvara). Come aspetti di Dio noi umani abbiamo una diritto alla nostra ricchezza per il nostro benessere, pace e felicità.

Giorgio Nadali

direttore@oltre.online

stampa@giorgionadali.com


Il Kama Shastra, la scienza sacra vedica del sesso

   Il Kamashastra è l’insieme dei testi sacri che riguardano il kama (amore), la sessualità e il godimento sensuale. Kama (amore) più shastra (insegnamento). Il Kamashastra, o scienza dell’erotismo, è attribuita al dio Prajapati, che l’ha trasmessa a Nandi, il toro del dio Shiva. Poi è passata a Svetaketu, a Sankha e a Babhravya. Quest’ultimo ha condensato la tradizione del Kamashastra in 150 capitoli suddivisi in sette adhikarana (sezioni) che formano la base della scuola sessuale induista. Gli adhikarana sono: principi generali, corteggiamento, unione sessuale, matrimonio, come rubare la moglie che appartiene ad altri uomini, le prostitute, le pozioni, i sortilegi, gli afrodisiaci, i mantra (preghiere), gli strumenti sessuali. I testi più importanti della Kamashastra sono il Kamasutra del monaco Vatsyayana (450 d.C.), l’Ananga-Ranga (“Teatro del dio dell’amore”) di Kalyanamalla (1460-1530 d.C.). Lo scopo di quest’ultimo non è quello di promuovere la promiscuità sessuale, ma l’armonia familiare (eccezione fatta per l’adhikarana che spiega come rubare le mogli degli altri). Altri importanti testi del Kamashastra comprendono il Kuttani-mata (“Lezioni di un ruffiano”) di Damodaragupta, il Samaya-matrika (“Il breviario della prostituta”) di Ksemendra, il Rati-rahasya (“Misteri della passione”) di Koka e il Pankasayaka (“Le cinque frecce”) di Jyotirisa (o Jyotirishvara). Esistono centinaia di testi popolari di Kamashastra nei quali le divinità indù si dilettano in varie posizioni sessuali come paradigmi per le prestazioni erotiche umane.

    «Gli uomini si dividono in tre classi: gli uomini lepre, gli uomini toro e gli uomini cavallo secondo la grandezza del loro lingam [pene]. Anche la donna, secondo la profondità della sua yoni [vagina], è una cerva, una giumenta o un’elefantessa. Da ciò segue che vi sono tre unioni uguali, cioè tra persone che si corrispondono in dimensione, e sei unioni inuguali, quando al contrario le dimensioni non si corrispondono. Si tratta dunque di nove casi in tutto: Uguali: Lepre/ Cerva, Toro/Giumenta, Cavallo/Elefantessa; Inuguali: Lepre/Giumenta, Lepre/Elefantessa, Toro/Cerva, Toro/Elefantessa, Cavallo/Cerva, Cavallo/Giumenta”. Così inizia la parte seconda del Kamasutra. Kama sta per piacere, amore, sesso, desiderio. Sutra sta per trattato. Le tre principali scienze umane indù sono le shastra: 1) Dharmashastra, la legge sociale, nota come Leggi di Manu o Manavadharmashastra. 2) La Arthashastra, la scienza politica e economica, attribuita a Kautilya. Un importante istituto universitario, il Chanakya Institute of Public Leadership basa i suoi insegnamenti proprio sulla Dharma Shastra indù per formare i suoi leader e manager. 3) Il Kamashastra, la scienza erotica. Le tre shastra rispecchiano i tre obiettivi della vita umana, i purushastra: (o trivarga): Kama (piacere sensuale, non solo sessuale), Dharma (legge morale) e Artha (Beni materiali). In sostanza sono la pietà (dharma), il profitto (artha) e il piacere (kama). Oppure “società, successo e sesso” o ancora “dovere, dominazione e desiderio».

Il Kamasutra (350 d.C.) non riguarda solo posizioni sessuali, ma anche pratiche indicazioni su come trovare un partner, commettere adulterio, mantenere il potere nel matrimonio, usare droghe e gestire cortigiane. Contiene anche dei geniali consigli di seduzione maschile, come ad esempio: «Strofinandosi con unguento tratto dalla pianta emblica myrabolans si acquista il potere di conquistare le donne a piacere» oppure: «Un osso di pavone o di iena, coperto d’oro e attaccato alla mano destra, rende simpatico un uomo», o ancora: «Mangiando polvere di nelumbrium speciosum, di loto azzurro e di mesna roxburghii, con burro chiarificato e miele, un uomo si rende piacevole». Sono presenti anche delle alternative tutte naturali al “Viagra” come: [l’uomo che vuole aumentare la sua potenza sessuale] «mescola del riso con uova di passero, poi, dopo aver fatto bollire il tutto nel latte, vi aggiunge del ghee [burro chiarificato] e del miele» oppure «latte zuccherato, radice della pianta uchchata, pepe, sciaba e liquerizia». Contiene anche pratici «consigli su come guadagnare denaro», come ad esempio: «Manterrà medici e ministri con qualche scopo». Le famose posizioni sessuali sono sessantaquattro, la maggioranza delle quali però richiede delle abilità acrobatiche.

La Kamashastra non si limita al Kamasutra, scritto da un monaco che viveva in assoluta castità, Mallanaga Vatsyayana. Altri importanti testi della scienza della passione sono: Il Ratirahasya o Kokashastra, scritto da Kokkaya (XIII sec. d.C.) dedicato al “come trarre il massimo dal sesso, goderselo e mantenere felice una donna”. Nei suoi quindici pachivede (capitoli) con ottocento versetti contiene pratici consigli sui baci, le donne straniere, sui tipi fondamentali di donne e sul “come guadagnare la fiducia di una ragazza”. Il “Rati” della parola Ratirahasya significa “fare l’amore” e occorre sempre ricordare che il ruolo della donna nel Kamashastra è sempre dominante. L’Anangaranga di Kalyanmalla (XVI sec. d.C.) contiene preoccupanti avvertimenti come «La donna di cui  i due piccoli alluci non toccano il suolo mentre cammina, perderà certamente il marito, e durante la sua vedovanza non sarà in grado di mantenere se stessa casta». Infine completano la libreria erotica del Kamashastra indù il Nagarasarvasva di Bhikshu Padamashri, il Pankasayaka di Jyotirishvara (XIV sec. d.C.) e il Ratiratnapradipika di Praudha Devaraja.

Giorgio Nadali


Vimana. Il disco volante sacro

UFO religiosi? Sì. Il vimana è un oggetto volante meccanico, descritto in diversi antichi testi induisti. Si parla dei vimana nelle guerre mitologiche descritte nei testi sacri Mahābhārata e Ramayana. Secondo i testi sacri, i vimana sono in grado sia di volare nell’aria, nello spazio e anche sott’acqua. Rimane ovviamente il mistero di come testi così antichi potessero concepire le attuali tecnologie moderne. Il Ramayana è del II secolo a.C. e il Mahābhārata è del IV secolo a.C. Negli antichissimi testi induisti – i Veda – sono citati diversi tipi di vimana, con forme e dimensioni varie, tra cui i agnihotra-vimana, (“agni = fuoco”) con due motori  e il gaja-vimana, con più di due (“gaja” = elefante).

Il Vaimanika Shastra è un manuale che spiega come pilotare un vimana e le sue caratteristiche tecniche. Sono anche descritte altre tipologie: il Martin pescatore, l’ibis, e altri animali. La parola vimana deriva da vi-mana, cioè “Luogo di cui sono state prese le misure”. La parola ha anche il significato di tempio Indù. La parola vimana dall’unione di “vi” (“uccello”) e “mana” (“abitato”). Nelle ultime scritture sono descritti altri veicoli volanti, e qualche volta sono fatti riferimenti poetici persino a veicoli terrestri. In alcune lingue moderne indiane, la parola vimana è usata per indicare un aeroplano.

Anche nel libro Buddhista Vimanavatthu («Storie di Vimana») si usa la parola “vimana”, che indica un breve testo usato come ispirazione o un sermone buddhista. Il Vaimanika Shastra scritto nel 1918 («Scienza dell’Aeronautica») è un testo che spiega come costruire le macchine volanti vimana descritte nei testi sacri, anche se le strutture descritte sono in realtà piuttosto anti aereodinamiche, tranne il rukma vimana.

La velocità della luce è di 299.792,458 km/secondo. Una scoperta dell’astronomo inglese James Bradley nel 1728. Tuttavia un testo sacro – il Vishnu purana – del I secolo a.C. già la conosceva! Nel testo in antico sanscrito nimisha significa ciò che lampeggia come il batter di ciglia e Nimisharda è utilizzato per rappresentare la luce perché viaggia “in un batter d’occhio”. L’unità di distanza è chiamata Yojana è definita nel capitolo sei del libro uno del testo antico vedico Vishnu purana come segue: 4 Gavyútis = 1 Yojana = 9,09 km. Il valore della velocità della luce sulla base del valore di 2.202 yojana in 1/2 nimesa = 2.202 per 9.09 miglia per 0.1056 secondi = 20.016,18 miglia per 0.1056 secondi = 189.547 km/secondo. Il valore si avvicina a quello della scienza moderna.

Giorgio Nadali


Il Naraka, l’inferno Indù e Buddhista

Nel codice di Manu (induista) si parla non di uno, ma di ben ventuno inferni diversi, ciascuno col suo nome. Ciascun inferno ha una sua pena. È escluso che Dante Alighieri si sia ispirato al Codice di Manu nella sua descrizione delle pene infernali, ma è strano notare la somiglianza dei vari inferni buddhisti e induisti con le pene del contrappasso dantesco. È fuori discussione che l’inferno sia caldo. Questo però solo nella visione cristiana. Infatti, Gesù parla di «fuoco eterno» dell’inferno (Matteo 25,41). Il Codice di Manu parla anche di otto inferni freddi, oltre a otto inferni caldi. Nel Naraka Huhuva si battono i denti. È proprio chiamato “Il Naraka dei denti che battono”. Stranamente si parla di “stridore di denti” infernali anche nel Vagello di Luca 13,28 e in altri sei passi evangelici.

Il Taoismo conosce un rito dei denti che battono, il K’ou-ch’ih. Il Naraka Nirarbuda è l’inferno freddo delle vesciche scoppiate. Nel Naraka Aṭaṭa i dannati hanno così freddo che non fanno altro che balbettare «at, at, at», da cui il nome: il Naraka del tremito. Il Codice di Manu descrive anche la durata della vita infernale. Non è eterna, come nella visione cristiana e islamica, ma è notevolmente lunga. L’inferno caldo Naraka Pratāpana, quello «dell’immenso calore» per intenderci, dura un numero astronomico di anni: 42.467.328 per dieci alla decima. In sostanza più anni d’inferno che del numero delle stelle nell’universo; tutti ospiti di Yama, il padrone di casa del naraka. No, non è Satana.

L’Avichi è l’inferno peggiore. I naraka freddi e caldi sono circondati da sedici inferi secondari. I dannati sono triturati, spezzettati, mangiati vivi da uccelli col becco di ferro, tagliati a pezzi dalle affilatissime foglie degli alberi infernali. Una speranza però c’è.

Il rito dell’ullambana. Letteralmente significa “salvare i defunti appesi sottosopra”. Questo rituale a favore dei defunti è praticato sia dall’Induismo, sia dal Taoismo, sia dallo Shintoismo. Il termine ullambana deriva dal sanscrito avalambana: e significa “appeso a testa in giù”. È questo il tormento dal quale si vogliono salvare i defunti. In Cina è praticato il quindicesimo giorno del settimo mese buddhista (agosto) per aiutare gli spiriti affamati (preta) mediante offerte di cibo, spesso in forma simbolica e di carta (vedi Jīnzhǐ). In Giappone lo urabon si tiene il 15 luglio e il 15 agosto.

Giorgio Nadali


I miracoli indù e la scienza yogica ashta ma siddhis

Miracoli indù? Certo! E sono tanti… L’Induismo classifica i miracoli e dà esempi di miracoli nella sua mitologia e nella vita di centinaia di santi. Il siddhar è chi ha il siddhi, potere soprannaturale, che è definito da otto tipi della scienza yogica (ashta ma siddhis). Questi sono: 1) Anima: potere di ridursi alla dimensione di un atomo e di entrare nella vita microscopica. 2) Mahima: potere di divenire potente e grande come Krishna. 3) Laghima: capacità di essere leggero, ma grande nelle dimensioni. 4) Garima: capacità di essere pesante come Shiva. 5) Praapti: capacità di entrare in tutti i mondi da Brahmaloka a Pathalam.6) Prakaamyam: potere di uscire dal corpo, entrare in altri corpi e andare in cielo e godere di ciò che si vuole. 7) Ishitvam: il potere di divenire un dio come Shiva. 8) Vasithvam: potere di influenzare chiunque. Questi poteri possono essere ottenuti da chiunque si impegni e si sforzi di praticare la disciplina spirituale (sadhana).

1) Si può divenire piccolo con l’umiltà, che dà il potere chiamato anima. 2) Si può divenire mahaan, grandi, aiutando gli altri. Chi serve gli altri è un mahatma. Aiutare gli altri dà il potere mahima. Mahatma (grande) è il titolo di Gandhi. 3) Si può divenire pesanti dal peso dei propri contributi alla società Dare continui contributi alla società dà il potere garima. 4) Si può divenire leggeri eliminando il proprio ego. Questo dà il potere laghima. 5) Si può aspirare a qualsiasi cosa cercando. La ricerca dà il potere praapti. 6) Si possono realizzare i propri desideri con la volontà. Questo dà il potere praakamyam. 7) Si può divenire signore assumendosi delle responsabilità. Questo dà il potere ishitvam. 8) Si può influenzare gli altri mediante l’amore e l’interessamento. Prendersi cura di qualcuno dà il potere vashitvam.

Giorgio Nadali


I segreti del Nirvana

Nel Buddhismo il nirvana è l’estinzione (nir) di ogni desiderio (vana), lo scopo finale dell’esistenza e la liberazione finale dal dolore: «Tutto è dolore Il dolore si combatte eliminando il desiderio». In psicoanalisi il «Principio del Nirvana» è quello che esprime la tendenza a raggiungere uno stato non conflittuale di libertà dal dolore o dalle preoccupazioni. Il desiderio di uno stato di oblio come manifestazione dell’istinto di morte. Per Schopenhauer è la negazione della volontà di vivere la cui esigenza scaturisce dalla conoscenza della natura dolorosa e tragica della vita. Il mokṣa è la liberazione in questa vita (jivanmukti) o escatologica (karmamukti) dal ciclo di reincarnazioni, il samsàra.

Il funerale tradizionale taiwanese con le spogliarelliste funebri

Dentro il padiglione funebre – nella casa del defunto – è fatto il lamento funebre e i famigliari strisciano fino alla bara. Il defunto ha lascito per tempo le sue ultime volontà e disattenderle può portare mala sorte alla famiglia. Il figlio maggiore indossa le vesti cerimoniali. A Taiwan le ballerine erotiche vengono ingaggiate per eventi come matrimoni e funerali. Molti pensano che spettacoli esotici e costosi siano onorevoli e facciano felici déi, spiriti e uomini. In casa viene offerto cibo al defunto per il suo viaggio. Poi viene deposto nella bara, piena dei soldi finti chiamati jīnzhǐ.

A Taiwan il rispetto per il defunto si misura con la folla, i soldi spesi per il funerale (in genere almeno quindicimila euro) e il numero più alto possibile di decibel della musica festosa. Una banda con majorettes, sassofoni, suonatori di tamburo trasportati da carrelli motorizzati e cantanti col microfono accompagnano il feretro. È chiamato il “carro di Buddha” e apre il corteo funebre. Poi segue il grande dragone di carta con i ballerini che fanno la danza del drago. Due bande musicali interamente femminili. Vengono cantati pezzi pop. A seguire, un altro carro allegorico funebre con palcoscenico mobile e ballerine di lap dance che la per giusta somma di denaro si spogliano durante il corteo funebre e anche davanti alla lapide. Tutto per fare felice il defunto. Nella bara viene fatta un’apertura affinché il defunto possa guardare le ragazze mentre ballano al cimitero. Poi è interrata. Nella cultura buddhista la morte non è affatto qualcosa di triste.

Il Naraka, l’inferno Indù e Buddhista

Nel codice di Manu (induista) si parla non di uno, ma di ben ventuno inferni diversi, ciascuno col suo nome. Ciascun inferno ha una sua pena. È escluso che Dante Alighieri si sia ispirato al Codice di Manu nella sua descrizione delle pene infernali, ma è strano notare la somiglianza dei vari inferni buddhisti e induisti con le pene del contrappasso dantesco. È fuori discussione che l’inferno sia caldo. Questo però solo nella visione cristiana. Infatti, Gesù parla di «fuoco eterno» dell’inferno (Matteo 25,41). Il Codice di Manu parla anche di otto inferni freddi, oltre a otto inferni caldi. Nel Naraka Huhuva si battono i denti. È proprio chiamato “Il Naraka dei denti che battono”. Stranamente si parla di “stridore di denti” infernali anche nel Vangelo di Luca 13,28 e in altri sei passi evangelici.

Il Taoismo conosce un rito dei denti che battono, il K’ou-ch’ih. Il Naraka Nirarbuda è l’inferno freddo delle vesciche scoppiate. Nel Naraka Aṭaṭa i dannati hanno così freddo che non fanno altro che balbettare «at, at, at», da cui il nome: il Naraka del tremito. Il Codice di Manu descrive anche la durata della vita infernale. Non è eterna, come nella visione cristiana e islamica, ma è notevolmente lunga. L’inferno caldo Naraka Pratāpana, quello «dell’immenso calore» per intenderci, dura un numero astronomico di anni: 42.467.328 per dieci alla decima. In sostanza più anni d’inferno che del numero delle stelle nell’universo; tutti ospiti di Yama, il padrone di casa del naraka. No, non è Satana.
L’Avichi è l’inferno peggiore. I naraka freddi e caldi sono circondati da sedici inferi secondari. I dannati sono triturati, spezzettati, mangiati vivi da uccelli col becco di ferro, tagliati a pezzi dalle affilatissime foglie degli alberi infernali. Una speranza però c’è.

Il rito dell’ullambana. Letteralmente significa “salvare i defunti appesi sottosopra”. Questo rituale a favore dei defunti è praticato sia dall’Induismo, sia dal Taoismo, sia dallo Shintoismo. Il termine ullambana deriva dal sanscrito avalambana: e significa “appeso a testa in giù”. È questo il tormento dal quale si vogliono salvare i defunti. In Cina è praticato il quindicesimo giorno del settimo mese buddhista (agosto) per aiutare gli spiriti affamati (preta) mediante offerte di cibo, spesso in forma simbolica e di carta (vedi Jīnzhǐ). In Giappone lo urabon si tiene il 15 luglio e il 15 agosto.

Funerale simulato da vivi

In Corea del Sud vi è il più alto tasso di suicidi al mondo. Dai 400.000 ai 779.000 nel mondo. Dei venti Paesi con alti tassi di suicidio, diciassette appartengono all’area dei Paesi più ricchi e benestanti; lo status socioeconomico delle persone non costituisce un fattore rilevante di rischio suicida; più una persona, o uno Stato, è religiosa e minore è il suo tasso di suicidio; i protestanti presentano un tasso di suicidio più alto degli ebrei, e questi, a loro volta, più alto dei cattolici .

La Cheonan la Coffin Academy (“Accademia della bara”) offre un programma che vuole prevenire i suicidi. Il momento più importante del macabro rituale è il finto funerale in cui i partecipanti sono chiusi ognuno nella propria bara posta in una grande sala. Si scatta la foto della persona da porre con un lumino sulla bara. Viene indossato il tradizionale sudario coreano e letto l’elogio funebre di ciascuno dei partecipanti. Il coperchio della bara è chiuso con un martello dopo che il partecipante vi si è sdraiato. Per dieci minuti ognuno riflette sulla propria vita, prima che la bara sia riaperta. Nessuno dei partecipanti al rito si è poi suicidato.

Monaci buddhisti robotizzati al cimitero

Al cimitero centrale di Yokohama (Giappone) la Elevator Systems Co. di Tokyo ha installato un monaco buddhista robot del valore di 380.000 dollari. Il monaco robot inizia automaticamente alle nove di mattina a intonare le preghiere di quattro sette buddhiste, sbattendo le palpebre e aprendo la bocca in base alla registrazione su cd rom. Svolge la funzione di quattro monaci. Un altro monaco robot è installato presso il tempio buddhista Hotoku-ji, a Kakogawa (Giappone). Di solito sta fermo in meditazione, ma quando i suoi sensori sentono l’avvicinarsi di un fedele, il monaco robot creato da Yoshihiro Motooka inizia a intonare un sutra, mentre lo shumoku (pestello) che tiene nella sua mano destra batte ritmicamente il suo bel mokugyo (gong di legno buddhista). Il robot è stato creato con parti usate di altri apparecchi. Il monaco robot è rasato, tiene in mano un rosario juzu ed è inginocchiato.

Giorgio Nadali


Khajuraho. Il complesso dei templi erotici, patrimonio UNESCO

Il complesso dei templi di Khajuraho, nello stato indiano dello Madhya Pradesh fu costruito tra il 950 e il 1050 d.C.. Il nome Khajuraho deriva dal khajur, la palma da dattero, molto diffusa nella zona, ma la sua attrazione principale non è costituita dai dolci frutti. È il complesso religioso più erotico esistente al mondo. I suoi murali e le sue statue rappresentano un tributo alla vita nell’era dei re Chandela Rajput, quando furono costruiti.

Il più grande dei venti templi meglio conservati del complesso è il Kandarya Mahadeva – dedicato al dio Shiva – alto trentuno metri. Nella sua parte più sacra è conservato un grosso lingam (pene) di pietra, simbolo appunto del dio Shiva. Anche il tempio Matangeshwara, appena fuori dell’area occidentale, è dedicato a Shiva e la sua attrazione principale è un lingam (pene di Shiva) alto due metri e quaranta centimetri.

Il lingam è sempre presente in tutti i templi indù – non solo a Khajuraho – e si erge al di fuori della sua base, costituita dalla yoni, (vulva) la sua shakti (potenza). Questa rappresentazione di pietra di forma fallica è chiamata shivalingam. Questo perché nell’induismo il sesso è sacro. Da esso viene la vita. Il santuario è ornato con divinità maschili e femminili e apsaras (fanciulle celestiali) tutte impegnate nelle più disparate attività erotiche esplicite.

Anche se solo il dieci per cento delle sculture dei templi di Khajuraho sono erotiche, si vede del sesso orale, sesso di gruppo, autoerotismo e anche l’unione sessuale tra un uomo e un cavallo. Le attività erotiche rappresentate sono legate al Tantra, una dottrina spirituale antica di quaranta secoli, tanto quanto la religione più antica al mondo ancora esistente, l’induismo. Nel Tantra vi è la ricerca dell’unione spirituale e il distacco dai legami terreni anche attraverso pratiche sessuali. Il sesso ha quindi un significato molto diverso dalla visione occidentale, almeno tanto quanto la distanza tra la genitalità materialista e l’erotismo spirituale.

Il Mahatma Gandhi voleva fare distruggere il complesso, circondato dai grandi giardini, ma il governo si oppose. Rimasero in stato di abbandono sino al XVIII secolo. Poi furono restaurati per la prima volta dagli inglesi nel 1838 e infine nel 2009. Oggi un aeroporto certamente sovradimensionato rispetto alle dimensioni del paesino indiano, accoglie milioni di visitatori attratti dalle rappresentazioni in bassorilievo del Kamasutra (il testo sacro del III sec d.C. scritto da Vatsyayana, un monaco che viveva in castità assoluta). Dal 1986 l’UNESCO li ha dichiarati patrimonio storico dell’umanità.

Giorgio Nadali


Karni Mata Mandir. Il tempio dei ventimila sacri topi in libertà

Il tempio (mandir) Deshnoke Karni Mata si trova a 33 Km da Bikaner, in località Deshnoke, nello stato indiano del Rajastan. È dedicato alla venerazione dei topi, ritenuti la reincarnazione dei membri della casta dei Charan, cantastorie che tramandavano al popolo le storie di re ed eroi. A loro apparteneva la dea Karni Mata, che ha fondato la parte interna più sacra del tempio indù (garbh griha). Karni Mata era una mistica indù chiamata Ridhu Bai che si dedicava ai poveri, nata il 2 ottobre 1387 a Suwap (Rajastan). I topi presenti all’interno dei cancelli d’argento e della porta di marmo donata dal Maharaja Ganga Singh sono circa ventimila e sono nutriti con latte, cereali e dolci. È di buon auspicio incontrare un topo e un onore mangiare un po’ del cibo che sia entrato in contatto con la sua saliva.

In questo tempio ratti e uomini mangiano e bevono insieme. Vederne uno bianco vuol dire fortuna assicurata. I roditori distruggono in India più del 25% delle coltivazioni, ma nel Karni Mata Mandir il rapporto con i topi si è totalmente rovesciato. Mahindra Deparvuit il sommo sacerdote del tempio è stato morso più di cinquanta volte dai topi, che entrano anche nei letti e nei pantaloni. Il morso dei topi può causare la rabbia e in India ogni mezz’ora una persona muore a causa di questa malattia. Nel tempio si entra scalzi. I fedeli credono che dopo la morte si reincarneranno come topi e vivranno nel tempio di Karni Mata, riveriti da altri fedeli come loro.

Karni Mata tentò di resuscitare un ragazzo annegato, ma questi si era già reincarnato come topo. Così decise che i suoi figli sarebbero rinati come topi e solo in seguito sarebbero rinati come uomini. Nel XIV secolo i ratti fecero 75 milioni di vittime nel mondo a causa della peste. Una femmina può partorire sino a duemila topi l’anno e un solo topo può urinare e defecare sino a quaranta volte il giorno. Può essere il veicolo di qualsiasi malattia e distruggere un terzo delle coltivazioni mondiali. I devoti di questo tempio pensano invece che i topi curino le malattie invece di provocarle. In India non sono i topi, ma i cani randagi che causano il 96% dei casi di rabbia.

In seicento anni non vi è mai stato un focolaio di peste nella zona del tempio Karni Mata Mandir. Anzi, quando c’è un’epidemia i fedeli si recano al tempio dei topi per chiedere la benedizione della dea per non essere contagiati. Il motivo è semplice. Per loro questi non sono i soliti topi comuni che portano malattie e devastazione, ma sono i loro antenati reincarnatisi come topi e quindi una manifestazione della divinità. L’esteriorità del topo non conta più. Il tempio apre alle 4 del mattino, quando i sacerdoti celebrano la Mangla-Ki-Aarti offrendo il bhog (cibo votivo) ai sacri topi. Il tempio non è sporco e non vi sono cattivi odori. Le offerte di dolci, frutta, latte e cereali sono fatte prima ai topi e poi condivise come cibo sacro (prasad) tra i fedeli. In particolare bere l’acqua dei topi è considerato di buon auspicio.

Nel tempio vi sono anche numerosi gatti, che (stranamente) non attaccano i topi. Anche a questi i fedeli donano offerte in cibo dette dwar-bhent e kalash-bhent. Una rete metallica di bronzo lungo tutto il perimetro del tempio protegge i sacri topi, da quando il maharaja di Bikaner ebbe una visione in cui la dea gli chiedeva di proteggere i piccoli roditori.

OLTRE sconsiglia ai lettori non induisti di bere il latte delle ciotole dei sacri topi, durante la visita al tempio di Karni Mata.

Giorgio Nadali


Fede e capelli

Tempi difficili per i barbieri di ebrei ortodossi. È assolutamente proibito usare il rasoio per la barba, sia per la Torah, sia per la Mishna – uno dei testi fondamentali dell’ebraismo – sia per la Cabala, che la considera santa. Dopotutto tutti i profeti e i patriarchi avevano una folta barba. L’accorciarla costituisce un grave peccato, tranne per gli ebrei chassidici italiani. Per l’ebraismo ortodosso è anche obbligatorio per i maschi far crescere sin da piccolissimi i peyot (“boccoli”) ai lati delle tempie. I bambini ebrei delle famiglie ortodosse devono lasciarsi crescere i capelli sino all’età di tre anni. Poi, secondo la tradizione, il padre invita i membri della famiglia a tagliare ciascuno una ciocca di capelli al bambino, lasciando solo i peyot, che rimarranno lunghi per tutta la vita e che dopo la pubertà si uniranno alla barba.

È uno dei segni più caratteristici degli ebrei ortodossi. Forse l’unico che li distingue dagli altri. Infatti, gli ebrei sono quattordici milioni nel mondo, ma solo una piccola parte, circa due milioni, può essere riconosciuta subito anche visivamente. La maggioranza degli ebrei non ha segni distintivi esteriori. I peyot sono dapprima solo capelli (nell’età impubere) e poi misti a barba. Possono essere anche molto lunghi. Secondo Maimonide rasarsi ai lati delle tempie è un uso pagano.
Difficili sono le regole per i rasoi ebraici. Infatti, il rasoio elettrico Philishave con lame rotanti fu inventato proprio da un ebreo ortodosso olandese, Alexandre Horowitz. Un rasoio kosher, secondo la legge ebraica. Quello adatto per gli ebrei ortodossi, per una semplice regolata ai baffi quando interferiscono con la bocca nel mangiare, deve avere le lame secondarie rimosse. Le lame del rasoio non possono toccare la pelle in cinque punti. Esistono due vere e proprie enciclopedie di più di 1000 pagine solo sul come poter trattare religiosamente la santa barba.

Nel Cattolicesimo, con la lettera apostolica in forma di motu proprio Ministeria Quaedam “con la quale nella Chiesa Latina viene rinnovata la disciplina riguardante la prima tonsura, gli ordini minori e il suddiaconato”- del 15 agosto 1972 – papa Paolo VI abolì il rito della prima tonsura:
Da quel momento, tuttavia, alcuni istituti sono stati autorizzati a utilizzare la prima tonsura clericale, come ad esempio la fraternità sacerdotale di San Pietro (1988), l’Istituto di Cristo Sacerdote e Re (1990) e l’amministrazione apostolica personale San Giovanni Maria Vianney, (2001).

Nel Buddhismo la tonsura è una parte del rito di pabbajja per diventare un monaco. Questa tonsura è rinnovata spesso per mantenere il viso rasato e la cute del cuoio capelluto completamente calva. Alcuni monaci buddhisti cinesi hanno sei, nove o dodici punti neri nella parte superiore dello scalpo, come risultato della combustione del cuoio capelluto con la punta di un bastone d’incenso fumante. «Soli venite qui, radetevi il capo e la barba». Sono le parole del testo sacro Vinaya Pitaka. Un monaco buddhista si rade per la prima volta durante la cerimonia d’iniziazione. Rinunciando ai propri capelli e alla barba il novizio dimostra di essere pronto ad accettare uno stile di vita più semplice. La tonsura è una delle 227 regole della vita monastica descritta nel Vinaya Pitaka. Violare almeno novanta di queste regole vuol dire provocare una rinascita sfavorevole, come star seduto con una donna all’aperto uccidere un animale o avere una sedia o un letto con gambe più alte di venti centimetri.

Nell’Induismo, il concetto alla base è che i capelli costituiscono una simbolica offerta agli déi. In India – a Tirumala – c’è il tempio Tirumala Venkateswara nei pressi di Tirupati, dedicato al dio Venkateswara, dove i pellegrini si radono a zero. Il tempio raccoglie una tonnellata di capelli il giorno, poi venduti per sei milioni di dollari all’anno. Questo rappresenta un vero e proprio sacrificio di bellezza e in cambio ricevono benedizioni in proporzione al loro sacrificio. Il taglio di capelli (in sanscrito cuda karma, cuda karana) è uno dei tradizionali riti di passaggio detti samskara, eseguiti per i bambini: «secondo l’insegnamento dei testi rivelati, il Kudakarman (tonsura) deve essere eseguita, per ragioni di merito spirituale, da tutti gli uomini nati due volte nel primo o nel terzo anno». In alcune tradizioni la testa è completamente rasata mentre in altri è lasciato un piccolo ciuffo di capelli chiamato sikha. Nel movimento Hare Krishna di origine induista il sikha è l’appiglio per Krishna. Consiste in un ciuffetto di capelli risparmiato alla rasatura totale, segno di rinuncia alla vita mondana. Al momento di passare a miglior vita, Krishna afferra i suoi fedeli da questo ciuffetto posto poco sopra la nuca. Le vedove si radono a zero dopo la morte del marito e non è raro vedere tonsure sulla testa di un bambino dopo la morte di un genitore (di solito il padre).

Per i Sikh il Kes è una delle cinque regole con la “K”. La regola Kes prevede che i capelli e la barba non debbano mai essere tagliati perché sono un simbolo della perfezione divina nel creato. Non bisogna interferire quindi con le funzioni del corpo e avvolgere i capelli in un turbante e sono pettinati frequentemente con un Kangha (un’altra delle cinque “K”). Kangha è un pettine di legno o d’avorio per raccogliere i capelli lunghi e tenerli ordinati. È quindi simbolo di spiritualità controllata. Spesso un kirpan (pugnale) in miniatura è incastonato nel pettine. Le altre quattro K sono: Khacch, pantaloncini indossati sotto l’abito, simbolo di continenza. Kara, braccialetto d’acciaio al polso destro, simbolo della forza e dell’unione con Dio e gli altri Sikh. Kirpan, pugnale (per uso non violento) dai venti ai novanta centimetri. Simboleggia il coraggio nella difesa del giusto. Sono i cinque segni del khalsa (“l’esercito dei puri”). Un gruppo di fedeli Sikh che si dedicano al servizio militare della comunità. Il decimo guru (maestro), Guru Gobind Singh, nel 1699 fondò questo ramo ortodosso dei Sikh, religione professata da venti milioni di fedeli, in India. Gli uomini del khalsa si chiamano tutti Singh (“leone”) e le donne tutte kaur (“principessa”). L’undicesimo guru è il Wahe Guru, il guru supremo: Dio.

Fede e capelli anche per i bambini. La tribù keniota dei Gikuyu taglia i capelli a forma di croce ai bambini per spaventare gli spiriti malvagi che provocano le epidemie.

Nel battesimo cristiano ortodosso, subito dopo il rito fonte battesimale vi è la cresima, dove il bambino riceve il miron, l’olio Benedetto dal patriarca. Poi vi è la tonsura. Al bambino sono tagliate tre ciocche di capelli a forma di croce.

Da ultimo l’aspetto più doloroso. In India ad una ragazza che decida di consacrarsi suora gianista, durante la cerimonia di investitura vengono letteralmente strappati tutti i capelli a ciocche – senza anestesia – sino a renderla completamente calva. Da quel momento non potrà mai più vedere nè sentire la famiglia di origine.

Giorgio Nadali

 


Rituali estremi. 1. Nudismo sacro e mortificazione pubblica del pene. V.M. 18

ATTENZIONE! La mortificazione pubblica del pene è una pratica religiosa indù pericolosa! NON provate questa pratica, riservata a sadhu indù allenati! OLTRE non si assume alcuna responsabilità per i lettori che volessero mortificare pubblicamente il loro pene!

Sadhu significa “sant’uomo”. Sono gli asceti induisti. I Naga Baba sono i guerrieri asceti. Girano nudi (“naga”), ma non c’è nulla di erotico in tutto questo. Anche perché sono coperti della cenere bianca dei luoghi di cremazione su tutto il corpo. La nudità rappresenta l’ideale del sadhu e trasformano in potere psichico ogni pulsione sessuale. I Naga Baba fanno degli esercizi per aumentare la loro forza interiore, mortificando in pubblico il loro pene. Ad esempio con un esercizio detto chabi. Consiste nel tenere forzatamente il proprio pene in posizione abbassata. Un altro è il lingasana. Il sant’uomo si appende almeno trenta chili al pene e solleva questo peso con la sola forza del suo super prepuzio dotato di poteri sovrumani. Si tratta di un’elaborazione dell’esercizio yogico chiamato kara-lingi. Il suo scopo è di eliminare la capacità erettile dell’organo genitale e incanalare le forze sessuali in forma ascetica, trascendendola. In una parola, di aumentare la kundalini.

Una volta erano usate grosse catene, oggi delle corde con enormi mattoni appesi al pene. Non provate questo esercizio a casa se non siete dei Naga Baba, se siete circoncisi o non siete dotati di un super prepuzio. È facile vedere i Naga Baba praticare questo esercizio in pubblico durante il più grande raduno religioso del mondo: il Khumb Mela. Oltre cento milioni di fedeli in tre mesi presso il fiume sacro Gange, ogni dodici anni. Altri Naga Baba hanno fatto voto di non abbassare mai il loro braccio sinistro per dodici anni oppure di non sedersi mai. Uno di loro dorme in piedi, sorretto da corde, da dieci anni.

Il Gianismo (religione dell’India) ha due sette principali. Gli Svetambara (“vestito bianco”) rappresentano l’ala più liberale. Loro vi accompagneranno vestendo almeno un indumento. Ma quando il dovere lo impone, quelli della setta più radicale dei Digambara (“vestito di cielo”) vanno in giro nudi integrali. Questo per seguire l’esempio dello storico fondatore del Giainismo: Mahavira. (599 a.C.). Seguire il loro esempio religioso nudista vuol dire essere un perfetto nirgrantha, cioè “il nudo”. I Digambara sono solo 155.000 su quattro milioni di giainisti in India.
Anche i monaci jinakalpin, della setta Svetambara, circolano completamente nudi e usano il palmo delle mani come scodella. Questo fa parte dei voti monastici (mahavratas) che prevedono anche la castità assoluta, la proibizione di nuocere a qualsiasi essere vivente (insetti e microbi compresi), rubare e mentire. Comportarsi diversamente provocherebbe una reincarnazione, allontanando la salvezza (mokṣa).

Giorgio Nadali