I Valori cristiani. 7. La speranza, benessere dell’anima

La vera morte è la morte della speranza. Scriveva Jean Josipovici, mentre San Paolo: “Siate lieti nella speranza, forti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera” (Romani 12,12). La speranza è una delle tre virtù teologali – in sostanza fondamentali per un cristiano – insieme alla fede e alla carità. Sperare è predisporre il proprio animo per avvenimenti positivi. È quindi un esercizio di ottimismo. Chi spera ha pazienza ed è motivato ad agire per realizzare ciò che desidera. All’opposto c’è la disperazione, che è tipica dei dannati all’Inferno. Non a caso Dante scrive nella Divina Commedia: “lasciate goni speranza o voi che entrate”.

Chi spera sa che Dio in questo istante sta agendo nella sua vita personale, anche se non se ne rende conto, anche se sta provvisoriamente vivendo una situazione difficile. Un grande papa – Benedetto XVI – ha scritto un’intera enciclica sulla speranza: La Spe Salvi, cioè “nella speranza siamo stati salvati” (Romani 8,24). Il pontefice emerito ricorda che “Ogni agire serio e retto dell’uomo è speranza in atto. Lo è innanzitutto nel senso che cerchiamo così di portare avanti le nostre speranze, più piccole o più grandi: risolvere questo o quell’altro compito che per l’ulteriore cammino della nostra vita è importante; col nostro impegno dare un contributo affinché il mondo diventi un po’ più luminoso e umano e così si aprano anche le porte verso il futuro. Ma l’impegno quotidiano per la prosecuzione della nostra vita e per il futuro dell’insieme ci stanca o si muta in fanatismo, se non ci illumina la luce di quella grande speranza che non può essere distrutta neppure da insuccessi nel piccolo e dal fallimento in vicende di portata storica. Se non possiamo sperare più di quanto è effettivamente raggiungibile di volta in volta e di quanto di sperabile le autorità politiche ed economiche ci offrono, la nostra vita si riduce ben presto ad essere priva di speranza.

È importante sapere: io posso sempre ancora sperare, anche se per la mia vita o per il momento storico che sto vivendo apparentemente non ho più niente da sperare. Solo la grande speranza-certezza che, nonostante tutti i fallimenti, la mia vita personale e la storia nel suo insieme sono custodite nel potere indistruttibile dell’Amore e, grazie ad esso, hanno per esso un senso e un’importanza, solo una tale speranza può in quel caso dare ancora il coraggio di operare e di proseguire. Certo, non possiamo « costruire » il regno di Dio con le nostre forze – ciò che costruiamo rimane sempre regno dell’uomo con tutti i limiti che sono propri della natura umana. Il regno di Dio è un dono, e proprio per questo è grande e bello e costituisce la risposta alla speranza. E non possiamo – per usare la terminologia classica – « meritare » il cielo con le nostre opere. Esso è sempre più di quello che meritiamo, così come l’essere amati non è mai una cosa « meritata », ma sempre un dono. Tuttavia, con tutta la nostra consapevolezza del « plusvalore » del cielo, rimane anche sempre vero che il nostro agire non è indifferente davanti a Dio e quindi non è neppure indifferente per lo svolgimento della storia. Possiamo aprire noi stessi e il mondo all’ingresso di Dio: della verità, dell’amore, del bene. È quanto hanno fatto i santi che, come « collaboratori di Dio », hanno contribuito alla salvezza del mondo (cfr 1 Cor 3,9; 1 Ts 3,2). Possiamo liberare la nostra vita e il mondo dagli avvelenamenti e dagli inquinamenti che potrebbero distruggere il presente e il futuro. Possiamo scoprire e tenere pulite le fonti della creazione e così, insieme con la creazione che ci precede come dono, fare ciò che è giusto secondo le sue intrinseche esigenze e la sua finalità.

Ciò conserva un senso anche se, per quel che appare, non abbiamo successo o sembriamo impotenti di fronte al sopravvento di forze ostili. Così, per un verso, dal nostro operare scaturisce speranza per noi e per gli altri; allo stesso tempo, però, è la grande speranza poggiante sulle promesse di Dio che, nei momenti buoni come in quelli cattivi, ci dà coraggio e orienta il nostro agire… Agostino descrive in modo molto preciso e sempre valido la situazione essenziale dell’uomo, la situazione da cui provengono tutte le sue contraddizioni e le sue speranze. Desideriamo in qualche modo la vita stessa, quella vera, che non venga poi toccata neppure dalla morte; ma allo stesso tempo non conosciamo ciò verso cui ci sentiamo spinti. Non possiamo cessare di protenderci verso di esso e tuttavia sappiamo che tutto ciò che possiamo sperimentare o realizzare non è ciò che bramiamo. Questa « cosa » ignota è la vera « speranza » che ci spinge e il suo essere ignota è, al contempo, la causa di tutte le disperazioni come pure di tutti gli slanci positivi o distruttivi verso il mondo autentico e l’autentico uomo. La parola « vita eterna » cerca di dare un nome a questa sconosciuta realtà conosciuta.

Necessariamente è una parola insufficiente che crea confusione. « Eterno », infatti, suscita in noi l’idea dell’interminabile, e questo ci fa paura; « vita » ci fa pensare alla vita da noi conosciuta, che amiamo e non vogliamo perdere e che, tuttavia, è spesso allo stesso tempo più fatica che appagamento, cosicché mentre per un verso la desideriamo, per l’altro non la vogliamo. Possiamo soltanto cercare di uscire col nostro pensiero dalla temporalità della quale siamo prigionieri e in qualche modo presagire che l’eternità non sia un continuo susseguirsi di giorni del calendario, ma qualcosa come il momento colmo di appagamento, in cui la totalità ci abbraccia e noi abbracciamo la totalità. Sarebbe il momento dell’immergersi nell’oceano dell’infinito amore, nel quale il tempo – il prima e il dopo – non esiste più. Possiamo soltanto cercare di pensare che questo momento è la vita in senso pieno, un sempre nuovo immergersi nella vastità dell’essere, mentre siamo semplicemente sopraffatti dalla gioia. Così lo esprime Gesù nel Vangelo di Giovanni: « Vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno vi potrà togliere la vostra gioia » (16,22). Dobbiamo pensare in questa direzione, se vogliamo capire a che cosa mira la speranza cristiana, che cosa aspettiamo dalla fede, dal nostro essere con Cristo”.

Giorgio Nadali


I valori cristiani. 7. La preghiera

Diversamente da come si pensa, pregare non è ricordare a Dio qualcosa, ma ricordarci di Dio. Non a caso Gesù raccomanda di non sprecare molte parole come fanno i pagani: “Pregando poi, non sprecate parole come i pagani, i quali credono di venire ascoltati a forza di parole” (Matteo 6,7). Questi dovevano convincere gli déi ad ascoltarli e ancora oggi questo viene fatto con molta fede sincera in religioni come il Taoismo o lo Shintosimo. Bisogna convincere gli déi ad ascoltare e ad agire. Non è così per il Dio della Bibbia, che è Padre. La preghiera cristiana è un dialogo di amore. Dio sa già di cosa abbiamo bisogno (Matteo 6,32), ma non in generale, per l’umanità. Proprio personalmente per ciascuno di noi, per ogni periodo particolare e giorno della nostra esistenza terrena. Questa è la nostra fede. La preghiera non è quindi la recita di formule per tener buono un Dio che no ascolta o per fare intervenire un Dio distratto. Non è neppure la recita di mantra (formule di preghiera di tipo induista) ripetendole ossessivamente per entrare in uno stato di meditazione o per garantirci l’attenzione o la benevolenza divina o di Santi. Esistono in realtà rosari per la preghiera ripetitiva nel Cattolicesimo, nell’Ortodossia, nell’Islàm, nel Buddhismo, nell’Induismo.

Il pericolo è che l’orazione ripetitiva divenga meccanica, se non vi è uno spirito di preghiera. Questo significa una totale fiducia di avere già l’amore di Dio che vuole il nostro successo e la nostra felicità. Significa gratitudine, non mezzo per ottenere qualcosa o per mettersi in mostra come il fariseo della parabola evangelica: “O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano” (Luca 18,11). Vi sono innumerevoli modi di pregare, ma il peggiore è senz’altro quello senza cuore. Quello di una “religiosità ipomaniaca” che presenta il conto a Dio, e di una “religiosità da timore” che prega per garantirsi qualcosa. In questi casi manca la consapevolezza che siamo amati sempre, anche se non preghiamo affatto, anche se siamo ingrati. La preghiera ci aiuta ad essere grati e a rispondere a questo amore (Luca 15,11-32). Nella parabola del figliol prodigo il personaggio che rimane in collera è il fratello di colui che ha voltato le spalle al padre e se ne è andato. Nella parabola degli operai della vigna coloro che sono in collera sono gli operai che hanno lavorato tutto il giorno e ricevono la stessa paga di chi ha lavorato un’ora sola (Matteo20,12). La preghiera cristiana ha tre volti: lode, ringraziamento e domanda. Lodare Dio è essenziale perché l’amore implica il riconoscimento di quanto l’altro (e l’Altro) siano importanti per noi. Nasce dall’amore, non dalla paura. Solo chi si sente amato esattamente per come è già adesso può provare gratitudine e da questo scaturisce la preghiera di ringraziamento, di gratitudine (Luca 17,17).

Nella parabola Gesù guarisce dieci lebbrosi. Li ama tutti senza condizioni, ma solo uno torna indietro a ringraziare. L’amore è gratuito. Non implica la risposta dell’altro. Però riconoscerlo ed esserne grati dà molta più gioia. Una differenza sostanziale tra chi crede (ed è amato) e chi non crede (ed è amato allo stesso identico modo). Abbiamo già parlato di un aspetto particolare della preghiera. Forse è bene ricordarlo.

Non esiste “sfacciataggine” nella preghiera. A un Dio grande si chiedono cose grandi. Quelle piccole le possiamo fare anche da soli. Prega in grande. Chiedi cose grandi. Chiedete e vi sarà dato: “una buona misura, pigiata, scossa e traboccante vi sarà versata nel grembo” (Luca 6,38). Padre, grazie per questa meravigliosa giornata. Ricolmami della tua grazia e del tuo favore in questa giornata, al punto da farmi essere benedizione per gli altri. Che preghiera energizzante e piena di fede per iniziare così la giornata! Dio vuole il massimo per noi. Sì, anche in termini materiali. La povertà non è la miseria. Ne parleremo. Qualcuno ha insegnato a tenere un profilo basso e dimesso con Dio. Questo non è però compatibile con l’idea di rapporto Padre-figlio che ci ha trasmesso Gesù. Quale padre direbbe “non disturbarmi, riga dritto e accontentati”. Sì, forse alcuni “padri” terreni, ma certamente non Dio Padre. Difatti Gesù dice: “Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pane, gli darà una pietra? O se gli chiede un pesce, gli darà al posto del pesce una serpe? O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione? Se dunque voi, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono!” (Luca 11,13). Cosa significa? Prega in grande. Grande lode, grande gratitudine e grandi richieste. Niente timidezza nella preghiera. È il rapporto di amore con l’Abbà, cioè il vezzeggiativo tenero di “papà”, nella lingua aramaica, come lo chiama Gesù e ci ha insegnato a chiamarlo, ma anche soprattutto a crederlo veramente! E questo per alcuni è la cosa più difficile. Una preghiera: “Signore aumenta la nostra fede” (Luca 17,6). Interessante la risposta di Gesù: “Se aveste fede quanto un granellino di senapa, potreste dire a questo gelso: Sii sradicato e trapiantato nel mare, ed esso vi ascolterebbe”.

Giorgio Nadali


I valori cristiani. 6. La famiglia

La famiglia è la cellula base della società. La parola famiglia deriva da famulus, che il latino significa “servitore”. È quindi una comunità di amore basata sul reciproco servizio nell’amore. Il matrimonio (da mater, cioè madre in latino) fonda la famiglia tradizionale. A differenza di altre unioni e convivenze basate sull’amore reciproco, gli sposi diventano parenti, generano figli consanguinei e hanno il sostegno della grazia sacramentale. È quindi un amore che da privato diventa “pubblico” e offerto a Dio. L’istituzione matrimoniale nasce più di 5000 anni fa. Già il filosofo Aristotele (384 – 322 a. C.) scriveva: «L’amicizia tra marito e moglie è naturale: l’uomo, infatti, è per sua natura più incline a vivere in coppia che ad associarsi politicamente, in quanto la famiglia è qualcosa di anteriore e di più necessario dello Stato».

I ministri del sacramento del matrimonio cristiano sono gli stessi sposi, che sono immagine dell’amore di Cristo per la sua Chiesa. Nel 1981 il papa San Giovanni Paolo II ha scritto una lettera enciclica sulla famiglia: la Familiaris Consortio nella quale ricorda che la comunione d’amore tra Dio e gli uomini, contenuto fondamentale della Rivelazione e dell’esperienza di fede di Israele, trova una significativa espressione nell’alleanza sponsale, che si instaura tra l’uomo e la donna… Tra i compiti fondamentali della famiglia cristiana si pone il compito ecclesiale: essa, cioè, è posta al servizio dell’edificazione del Regno di Dio nella storia, mediante la partecipazione alla vita e alla missione della Chiesa… In virtù della sacramentalità del loro matrimonio, gli sposi sono vincolati l’uno all’altra nella maniera più profondamente indissolubile.

La loro reciproca appartenenza è la rappresentazione reale, per il tramite del segno sacramentale, del rapporto stesso di Cristo con la Chiesa. Gli sposi sono pertanto il richiamo permanente per la Chiesa di ciò che è accaduto sulla Croce; sono l’uno per l’altra e per i figli, testimoni della salvezza, di cui il sacramento li rende partecipi. Di questo evento di salvezza il matrimonio, come ogni sacramento è memoriale, attualizzazione e profezia: «in quanto memoriale, il sacramento dà loro la grazia e il dovere di fare memoria delle grandi opere di Dio e di darne testimonianza presso i loro figli; in quanto attualizzazione, dà loro la grazia e il dovere di mettere in opera nel presente, l’uno verso l’altra e verso i figli, le esigenze di un amore che perdona e che redime; in quanto profezia, dà loro la grazia e il dovere di vivere e di testimoniare la speranza del futuro incontro con Cristo. Come ciascuno dei sette sacramenti, anche il matrimonio è un simbolo reale dell’evento della salvezza, ma a modo proprio.

«Gli sposi vi partecipano in quanto sposi, in due, come coppia, a tal punto che l’effetto primo ed immediato del matrimonio non è la grazia soprannaturale stessa, ma il legame coniugale cristiano, una comunione a due tipicamente cristiana perché rappresenta il mistero dell’Incarnazione del Cristo e il suo mistero di Alleanza. E il contenuto della partecipazione alla vita del Cristo è anch’esso specifico: l’amore coniugale comporta una totalità in cui entrano tutte le componenti della persona – richiamo del corpo e dell’istinto, forza del sentimento e dell’affettività, aspirazione dello spirito e della volontà -; esso mira ad una unità profondamente personale, quella che, al di là dell’unione in una sola carne, conduce a non fare che un cuor solo e un’anima sola: esso esige l’indissolubilità e la fedeltà della donazione reciproca definitiva e si apre sulla fecondità.

In una parola, si tratta di caratteristiche normali di ogni amore coniugale naturale, ma con un significato nuovo che non solo le purifica e le consolida, ma le eleva al punto di farne l’espressione di valori propriamente cristiani… Nel disegno di Dio Creatore e Redentore la famiglia scopre non solo la sua «identità», ciò che essa «è», ma anche la sua «missione)», ciò che essa può e deve «fare». I compiti, che la famiglia è chiamata da Dio a svolgere nella storia, scaturiscono dal suo stesso essere e ne rappresentano lo sviluppo dinamico ed esistenziale. Ogni famiglia scopre e trova in se stessa l’appello insopprimibile, che definisce ad un tempo la sua dignità e la sua responsabilità. I compiti della famiglia cristiana sono: 1) la formazione di una comunità di persone; 2) il servizio alla vita;3) la partecipazione allo sviluppo della società; 4) la partecipazione alla vita e alla missione della Chiesa… La Chiesa difende apertamente e fortemente i diritti della famiglia dalle intollerabili usurpazioni della società e dello Stato.

In particolare, i Padri Sinodali hanno ricordato, tra gli altri, i seguenti diritti della famiglia: di esistere e di progredire come famiglia, cioè il diritto di ogni uomo, specialmente anche se povero, a fondare una famiglia e ad avere i mezzi adeguati per sostenerla; di esercitare la propria responsabilità nell’ambito della trasmissione della vita e di educare i figli; dell’intimità della vita coniugale e familiare; della stabilità del vincolo e dell’istituto matrimoniale; di credere e di professare la propria fede, e di diffonderla; di educare i figli secondo le proprie tradizioni e valori religiosi e culturali, con gli strumenti, i mezzi e le istituzioni necessarie; di ottenere la sicurezza fisica, sociale, politica, economica, specialmente dei poveri e degli infermi; il diritto all’abitazione adatta a condurre convenientemente la vita familiare; di espressione e di rappresentanza davanti alle pubbliche autorità economiche, sociali e culturali e a quelle inferiori, sia direttamente sia attraverso associazioni; di creare associazioni con altre famiglie e istituzioni, per svolgere in modo adatto e sollecito il proprio compito; di proteggere i minorenni mediante adeguate istituzioni e legislazioni da medicinali dannosi, dalla pornografia, dall’alcoolismo, ecc.; di un onesto svago che favorisca anche i valori della famiglia; il diritto degli anziani ad una vita degna e ad una morte dignitosa; il diritto di emigrare come famiglie per cercare una vita migliore… A coloro che non hanno una famiglia naturale bisogna aprire ancor più le porte della grande famiglia che è la Chiesa, la quale si concretizza a sua volta nella famiglia diocesana e parrocchiale, nelle comunità ecclesiali di base o nei movimenti apostolici. Nessuno è privo della famiglia in questo mondo: la Chiesa è casa e famiglia per tutti, specialmente per quanti sono «affaticati e oppressi».

Giorgio Nadali


I valori cristiani. 5. La Giustizia

Per un cristiano vi sono due pilastri riguardo la giustizia. Primo: «Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli» (Matteo 5,20). Sono parole di Gesù Cristo. Per un cristiano la giustizia dev’essere come quella divina: amore. Secondo: «Il giusto vivrà mediante la fede» (Romani 1,17). La fede deve portare ad essere giusti come Dio. «Siete stati giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo» (1 Corinzi 6, 11). «Cristo Gesù è diventato per noi sapienza, giustizia» (1 Corinzi 1, 30) «perché noi potessimo diventare giustizia di Dio» (2 Corinzi 5, 21). Se è fuori discussione il fatto che la giustizia sia Dio stesso (come del resto ogni altro suo attributo), è certo che la persona matura possegga un sano senso di giustizia. Il cristiano può essere giusto perché viene giustificato dal sacrificio redentore di Cristo. La giustizia è strettamente legata all’amore. La giustizia è posta a fondamento dell’amore. Esso non può sussistere senza giustizia.

Occorre riconoscere all’altro ciò che gli spetta di diritto, cioè ciò che gli garantisca la sua piena umanità e dignità. Nell’esperienza cristiana la persona riconosce tra questi diritti anche l’amore (che normalmente va oltre al concetto di giustizia appena accennato), per cui il cristiano non può essere giusto senza amare. Esso diviene un dovere, come risposta ad un amore totalmente gratuito, che è quello divino, in Cristo. La persona risponde all’amore gratuito di Dio con un amore gratuito al prossimo (e a Dio). La fede cristiana non trasforma l’amore in un obbligo, ma in un diritto. E ad ogni diritto corrisponde un dovere, perché esista vera giustizia. Nell’esperienza cristiana vi è da una parte il riconoscimento che solo Dio può giudicare il cuore della persona. Il giudizio viene limitato al discernimento tra bene e male, anche nei confronti dell’altro: Se il tuo fratello commette una colpa va e ammoniscilo… (Matteo 18, 12) evitando di pronunciare un giudizio assoluto sulla persona: «Non giudicare» (Matteo 7, 1).

Per l’uomo il giudizio sull’altro ha sempre una valenza emotiva così forte e condizionante da creare esclusivamente divisione e disarmonia, dato che l’uomo quando è tentato di giudicare in questo senso è sempre spinto da una situazione negativa. Ma per esercitare il senso di giustizia la persona deve soprattutto riconoscere il diritto altrui. E’ qui, forse, il contributo determinante dell’esperienza cristiana. Quali diritti io riconosco all’altro? E in forza di che cosa o di chi? Ora è precisamente l’amore quello che apre gli occhi per riconoscere la persona del prossimo. Senza la luce e l’ispirazione dell’amore non si arriva al rapporto personale della giustizia.

I diritti fondamentali, cioè i diritti universali dell’uomo, sono fondati nella dignità della persona umana; di conseguenza diventa possibile rispettarli solo sulla base di una comprensione piena di amore del prossimo nella sua qualità di persona. Pertanto una giustizia solo o prevalentemente impersonale rimane sempre imperfetta e degenera facilmente in ingiustizia… Solo la giustizia guidata e ispirata dall’amore, che ha il primato in tutto, è una giustizia viva. Per questo l’ordine sociale è da fondarsi sulla verità, realizzarsi nella giustizia, deve essere vitalizzato dall’amore. Chi segue fedelmente Cristo, cerca anzitutto il Regno di Dio, e assume così più valido e puro amore per aiutare i suoi fratelli e per realizzare le opere della giustizia. La psicologia riconosce tra i bisogni fondamentali dell’individuo quello di dare e ricevere amore.

Nel Cristianesimo vi è una visione universale dei diritti umani. L’altro va rispettato in quanto persona, non in quanto credente e tanto meno in quanto credente nella propria stessa fede religiosa. Questa universalità è presente anche nel Buddhismo, anche se la persona umana è considerata in modo diverso. La vita umana è solo apparenza.

L’esperienza cristiana ne fa un diritto, e quindi un dovere. Il giudizio sarà quindi orientato da questo fine superiore. Giudicare può significare due cose diverse: in primo luogo, esercitare la funzione mentale dell’asserzione oppure assegnare certi predicati. In secondo luogo, però, ‘giudicare’ significa pure esercitare la funzione di ‘giudice’ in riferimento all’azione di assolvere e condannare. Quest’ultimo tipo di giudizio morale si fonda sull’idea di un’autorità che trascende l’uomo e che formula giudizi su di lui. Tale autorità è privilegiata per assolvere, condannare o punire. I suoi dettami sono assoluti, perché si trova al di sopra dell’uomo, ed è dotata di una saggezza e di una forza per l’uomo inattingibili… Ma molte persone che non esercitano l’ufficio di giudice ne assumono il ruolo, pronti a condannare o ad assolvere, quando formulano giudizi morali. Il loro atteggiamento spesso contiene una buona dose di sadismo e di distruttività. Non vi è forse fenomeno che contenga tanto senso distruttivo quanto l”indignazione morale’ che consente all’invidia di estrinsecarsi sotto la maschera della virtù… Il compito principale dell’uomo nella vita è far nascere se stesso, divenire ciò che potenzialmente è. Comprendere una persona non significa condonare; significa che non la si accusa come se si fosse un Dio o un giudice posti al di sopra di lei.

Giorgio Nadali


I valori cristiani. 4. L’umiltà. Benessere dell’anima

Umiltà. Una parola che ci mette un po’ a disagio. Cosa significa umiltà? E’ la virtù che si oppone alla superbia. La persona umile non ha una bassa autostima. Ha piuttosto una percezione di sé equilibrata. In sostanza, non si sente né un verme inutile, ma neanche un Padre Eterno. A proposito, nella fede cristiana Dio ha dimostrato facendosi uomo di essere estremamente umile, pur essendo per definizione il massimo della potenza. L’umile quindi non è un dimesso e tantomeno un depresso. Non va in giro a testa bassa. Ma… una persona umile può avere successo? Dipende da cosa intendiamo per successo. Dio vuole sempre il successo dei suoi figli, ma per ottenerlo occorre riconoscere di avere bisogno di lui. È il contrario dell’uomo presuntuoso e autosufficiente. Nel Cristianesimo Dio sceglie l’umiltà per dimostrare la sua vicinanza e il suo amore per l’umanità. Attraverso l’umiltà di una ragazzina ebrea di quattordici anni – nella Nazareth di quasi duemila anni fa – si incarna e nasce a Betlemme in una condizione di disagio e povertà. Maria di Nazareth loda Dio dicendo: «ha guardato l’umiltà della sua serva… ha innalzato gli umili e ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore» (Luca 1,51).

Dunque Dio fa cose grande attraverso gli umili. Dobbiamo però chiarire che gli umili non sono i poveracci e che un poveraccio può benissimo non essere umile. L’umiltà è soprattutto una disposizione interiore, un tratto della personalità. La povertà del Vangelo non è quella materiale. Per viverlo non è necessario fare il voto di povertà. E’ però necessario mettere la propria fiducia in Dio e non nelle cose materiali. Usarle, possederle sì, ma senza avidità rendendole di fatto degli idoli. Lo stesso vale per il denaro. Dunque l’umile ritiene di ricevere da Dio la forza per realizzare i propri sogni, per essere innalzato. Gesù Cristo afferma “prendete esempio da me che sono mite e umile di cuore”. Anche qui è bene chiarire che mite non significa debole. Mitezza significa potenza sotto controllo. Il mite ha il controllo di se stesso. E’ il debole che perde le staffe facilmente. Mitezza e umiltà sono grande amiche. Improbabile riuscire ad essere umili senza essere miti, e viceversa. Arroganza e violenza sono purtroppo alleate. Non necessariamente violenza fisica. La violenza è anche morale e psicologica. Forse le più diffuse. La violenza psicologica più diffusa è la menzogna, la bugia. La violenza morale più diffusa è l’insulto, l’offesa. Quindi l’umiltà aiuta molto ad essere sinceri e a rispettare, a considerare anche l’altro e il suo valore. L’umiltà però non è un comportamento derivante dalla presa di coscienza dei propri insuccessi. Il verbo cauchaomài in greco sta a significare la fiera dignità dell’umile. Ma «Per essere grandi bisogna prima di tutto saper essere piccoli.

L’umiltà è la base di ogni vera grandezza», come ha ricordato Papa Francesco. L’esperienza cristiana favorisce e sostiene l’umiltà. Quali effetti benefici essa può avere sull’affettività? Perché mai la persona matura dovrebbe essere umile? Lo è di fatto? «Il più grande tra voi sia vostro servo; chi invece si innalzerà sarà abbassato e chi si abbasserà sarà innalzato» (MT 23, 11) «L’orgoglio dell’uomo ne provoca l’umiliazione» (PR 29, 23). «Tutte le visioni, rivelazioni e sentimenti celesti non valgono il minimo atto di umiltà» scrive San Giovanni della Croce . Ed Edith Stein: «Nell’aridità e nel vuoto l’anima diventa umile. L’orgoglio di un tempo sparisce quando in se stessi non si trova più nulla che dia l’autorizzazione a guardare gli altri dall’alto in basso» mentre l’autore de L’imitazione di Cristo afferma: «Quando uno si umilia per i propri difetti facilmente fa tacere gli altri, e acquieta senza difficoltà coloro che si sono adirati contro di lui… Verso l’umile Dio si china; all’umile largisce tanta grazia, innalzandolo alla gloria, perché si è fatto piccolo; all’umile Dio rivela i suoi segreti, invitandolo e traendolo a sé con dolcezza». Non dobbiamo confondere psicologicamente l’umiltà con il senso di inferiorità e con l’assenza di autostima. L’umiltà è piuttosto la coscienza dei propri limiti, la conversione dai propri falsi idoli, l’accettazione di una realtà trascendente la propria esistenza.

Proprio l’affettività matura dà all’individuo la possibilità di essere umile. Questi, avendo scoperto il proprio valore e avendo raggiunto la piena accettazione di sé nell’autostima, non avrà bisogno di crearsi dei sostituti mentali al proprio senso di inadeguatezza e di insicurezza. Sostituti mentali che definiamo come «idoli», ai quali la persona si affida per surrogare la stima di se stessa, generando il sentimento di orgoglio. Quest’ultimo non ha nulla a che fare con l’autostima; è invece la causa di una mancanza di questa. L’individuo orgoglioso dipenderà dalle lodi e dall’apprezzamento altrui come condizione essenziale per autostimarsi ed accettarsi, ben lontano dal semplice bisogno fondamentale di essere amato. In realtà la persona è profondamente dipendente dalla rimozione del suo senso di inadeguatezza e dalla sua conseguente proiezione reattiva, che può dargli l’illusione di sentirsi autosufficiente e superiore. L’esperienza cristiana favorendo l’autostima elimina il falso sentimento di orgoglio (e quindi di «idolatria») sfociante nella superbia.

Incontra come modello di umiltà il Cristo «mite e umile di cuore» (Matteo 11, 29). Ridimensiona l’orizzonte terreno eliminando gli idoli, mettendo l’uomo di fronte alla realtà di creatura limitata. «Perché anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende dai suoi beni» (Luca 12, 15), ma allo stesso stimola la consapevolezza e l’impegno alla collaborazione con Dio per realizzare il suo Regno, in un rapporto di fiducia filiale, anche nel momento della caduta e del peccato. «Coraggio, figliolo, ti sono rimessi i tuoi peccati» (Matteo 9, 2). Parole che nella Chiesa continuano a risollevare la persona che è consapevole di valere proprio perché è amata da un Dio più grande del suo cuore (1 Giovanni 3, 20). La persona si pente proprio perché si scopre amata e scoprendosi amata non ha bisogno di cercare «idoli» che compensino la sfiducia in se stessa.

Giorgio Nadali


I valori cristiani. 3. La verità

Al secondo posto per i valori più odiati da Satana, dopo la carità (l’amore). Non a caso il diavolo è “padre della menzogna”, come lo chiama Gesù (Giovanni 8,44). Infatti è impossibile amare nella falsità e nell’inganno. Giovanni nella sua prima lettera ci dice: “Non vi ho scritto perché non conoscete la verità, ma perché la conoscete e perché nessuna menzogna viene dalla verità” (1 Giovanni 2,21). Cristo stesso si definisce “Verità” (Giovanni 14,6) e raccomanda che “sia invece il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno” (Matteo 5,37). In sostanza, niente compromessi sulla verità, niente giri di parole o abili manipolazioni per far credere autentica e buona qualcosa che non lo è affatto. Ciò che è vero è anche buono e bello. Solo la verità rende liberi (Giovanni 8,32), come ricorda Gesù, perché “chiunque commette il peccato è schiavo del peccato” (Giovanni 8,34).

Pilato chiede «Che cos’è la verità?» e questa domanda è sempre molto attuale. Da un punto di vista filosofico la verità è ciò che corrisponde alla natura di una cosa e quindi è anche il bene. Ad esempio, se un paio di occhiali è privo di una stanghetta o di una lente non è autenticamente un paio di occhiali, è rotto, e quindi è male. Va riparato infatti. La natura di un occhiale è di avere due stanghette e due lenti integre. Per le cose è facile intuire quale sia il bene e la verità. Più difficile è per la natura umana. Ma fino ad un certo punto, se riflettiamo. Avere un braccio solo è male, ma non è certamente una colpa. Questa esiste solo quando io sono il responsabile della falsità, del male. Ad esempio: a chi piace ricevere offese? A nessuno. Va da sé che un’offesa è sempre male, perché ferisce chi la riceve e non fa onore a chi la pronuncia perché l’autocontrollo ci rende più… umani, appunto. A chi piace non essere amato da nessuno? A parte i casi psichiatrici, a nessuno. Quindi non volere amare e centrarsi solo su se stessi è male.

L’egoismo è male, non perché lo dice una religione, ma perché si oppone alle esigenze della natura umana. La psicologia conferma che la mancanza di oblatività è una forma patologica, fuori dal “normale”, (psicopatia) perché l’essere umano è un essere sociale e la mancanza di empatia (mettersi nei panni degli altri) è male. Quindi ha bisogno di amare e di essere amato, se vuole essere felice. Questa è la verità sull’uomo. È possibile andare liberamente contro questa natura, ma c’è un prezzo alto da pagare. Non è possibile infatti essere felici e andare contro la propria natura umana. Abraham Maslow ha identificato cinque bisogni naturali (posti su di una piramide immaginaria, dal più basso al più alto), che se non sono soddisfatti nel rispetto degli altri, portano alla frustrazione. È logico che la frustrazione sia sempre male e non piace a nessuno perché rende infelici.

I bisogni sono: Fisiologici (mangiare, bere, sesso, sonno); Sicurezza (morale, sociale, salute, occupazione); Appartenenza (amicizia, affetto familiare, intimità sessuale); Stima (autostima, autocontrollo, realizzazione, rispetto reciproco, stima degli altri nei nostri confronti); Autorealizzazione (moralità, spontaneità, creatività, accettazione, assenza di pregiudizi, realizzazione dei propri progetti). La verità sull’uomo e quindi ciò che è bene o male è stabilita prima di tutto dalla sua natura. Nei Comandamenti divini della religione giudaico cristiana non vi è nulla che sia contro natura. Osservarli vuol dire essere più felici ed essere più uomini o donne. A partire dal bisogno di infinito (Dio, primo Comandamento) sino ala lotta contro l’avidità che genera molti crimini (Non desiderare la roba d’altri). Gesù dice: ”c’è più gioia nel dare che nel ricevere” (cf. Atti 20,35). Non è un’affermazione valida solo per i cristiani e nemmeno solo per i credenti. Solo donando io scopro quanto valgo. A ricevere sono capaci tutti, anche gli idioti.

Nella dichiarazione universale dei diritti umani c’è molto riguardo la verità sull’uomo. Non è legata ad una dottrina religiosa, anche se nasce in una cultura (giudeo cristiana) che rispetta il diritto naturale, prima ancora dei dettami divini. La Parola di Dio si inserisce semplicemente su una natura già scritta dal Creatore nel cuore dell’uomo. Il fatto che devo amare se voglio essere felice è un Comandamento che trovo già dentro di me e vale per chiunque su questa Terra. L’articolo 1 della Dichiarazione recita: “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”. Non dice “se vogliono”, dice “devono”. Inoltre, si parla di “fratellanza”, non di semplice “tolleranza”. È una dichiarazione laica, non religiosa, ma dice molto sulla verità scritta nel cuore umano dalla mano divina. Il male è assenza di verità e di bene. È falsità. Rende schiavo l’uomo. Ecco perché la verità lo rende libero. E soprattutto lo rende più uomo. Per un cristiano poi la fede è autentica se porta ad amare: “Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma coi fatti e nella verità” (1 Giovanni 3,18).

Giorgio Nadali


I valori cristiani. 2. La fede

L’autore della Lettera agli Ebrei del Nuovo Testamento descrive la fede come “fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono” (Ebrei 11,1). La fede è credere oltre l’evidenza. Non è basata sull’assurdo, che è contrario la ragione. Uno più uno uguale tre è un assurdo e si può provare che lo sia. La fede è basata sul mistero, che è superiore alla ragione. Non si può dimostrare né che Dio esista né che Dio non esista, ma non è un assurdo. La fede è un modo di conoscere non basato sull’evidenza e sull’esperienza diretta. Non riguarda solo la religione. Molte delle cose che crediamo non sono basate sull’evidenza. La “fede”, in un certo senso c’è anche in matematica. Come?

La congettura di Goldbach, è un puro atto di “fede”, se per fede intendiamo la convinzione di una realtà possibile che non è mai stata dimostrata. È data per vera, ma nessuno è mai riuscito a dimostrare che ogni numero pari maggiore di due può essere scritto come somma di due numeri primi. Una cosa creduta e non dimostrata! Uno dei maggiori problemi irrisolti della teoria dei numeri. Teoria – detto per inciso – formulata da Pierre de Fermat, grande estimatore della consulenza dei matematici gesuiti. Gli stessi che hanno scoperto le funzioni iperboliche e le equazioni differenziali, l’iperbole rettangolare, le geometrie non euclidee, e così via. Tutti preti.

E che dire delle congetture matematiche di Beal, di Collatz, di Hodge, di Hardy-Littlewood, di Borsuk, dei numeri primi gemelli o dell’ipotesi di Riemann? Solo per citarne alcune, perché, come sa, sono almeno quarantacinque. Tutte credute, ma per ora non dimostrate. Senza dimostrazione, niente teorema. Infatti di congetture si tratta. Certo non è matematica da liceo e lo diciamo quindi solo per coloro che sono convinti che in matematica tutto sia dimostrabile e che il campo delle cose credute e non dimostrate riguardi solo la religione. La congettura matematica si basa solo sull’intuito, quindi non sulla razionalità.

Per fede crediamo che il soffitto di un luogo pubblico non crolli. Ci fidiamo del costruttore, senza aver fatto personalmente dei controlli. Non è quindi possibili vivere senza la fede e questo vale anche per quella minoranza del 13% mondiale di persone che si definiscono atee, cioè che non credono in Dio e che magari usano, per motivi sociali e culturali espressioni storicamente legati alla fede religiosa come “grazie”, “prego”, “addio”, “settimana” “procreazione”, ecc. La fede cristiana è basata su tre elementi. 1) Grazia: Dio chiama attraverso fatti, persone, la Chiesa, la Parola di Dio, il silenzio… 2) Intelligenza: la persona ragiona sulla credibilità del dato di fede. 3) Volontà. La persona decide di credere e vivere in conseguenza a questa fede. Continua la Lettera agli Ebrei (11,6): «Senza la fede però è impossibile essergli graditi; chi infatti s’accosta a Dio deve credere che egli esiste e che egli ricompensa coloro che lo cercano». La gente però è molto timida con Dio. Qualcuno le ha insegnato a non infastidirlo troppo. A tenere un basso profilo. Si ha come il timore di una preghiera “spudorata”. Anni di educazione religiosa ci hanno abituato a domandare a Dio il minimo indispensabile. “Signore, aiutami a tirare avanti”. Non è un a preghiera sbagliata. È una preghiera che limita Dio.

Per le cose ordinarie non c’è bisogno di un intervento divino. Nessuno ci ha mai insegnato a pregare in grande. Ad un grande Dio si chiedono cose grandi. Non è spudoratezza. È fede. Cosa vuol dire cose grandi? Vuol dire credere sul serio che a Dio nulla è impossibile (Luca 1,37) e credere nel suo amore che vuole donarci molto di più di quanto noi stessi osiamo sperare. Prova a pensare ad un sogno che ritieni irrealizzabile per la tua vita. Ecco, Dio vuole donarci ancora più di quello. Lo crediamo? Molti non lo credono affatto perché sono stati educati ad una fede mediocre. Pensano che ciò che hanno è già il massimo che Dio ha voluto donare per loro. Pensano che Dio non possa volere il nostro successo. Anzi, il successo personale è quasi un peccato. Meglio essere mediocri per essere di bravi cristiani. Invece, è un peccato proprio credere questo. Perché l’uomo vivente è la gloria di Dio e ciò che Dio vuole donarci di grande e “impossibile” è un segno agli altri del suo amore e della sua potenza. Non si dà una grande testimonianza andando in giro a testa bassa facendo credere al mondo che la tua fede in Cristo è quella della rassegnazione e del tirare a campare. Un peccato contro lo Spirito Santo. Un peccato anche di ignoranza. La Parola di Dio dice: «cerca la gioia del Signore, esaudirà i desideri del tuo cuore» (Salmo 36,4). I desideri del tuo cuore… Non barare. Tanto Dio li vede già, anche se non vuoi presentarglieli. Ora, qualcuno ti ha fatto credere che nessuno di questi desideri da presentare a Dio possa essere di natura materiale. Si confonde il benessere, anche economico con il materialismo (che è l’adorazione delle cose materiali).

Invece Gesù ha incluso anche il pane quotidiano nelle richieste del Padre Nostro e il considerare la materia come impura è sconfinare in una filosofia che nulla ha a che fare col Cristianesimo. È gnosticismo. Eresia. Corpo, materia, esigenze terrene, benessere, successo, sesso, piacere e denaro non sono affatto cose “demoniache” in quanto tali, per il Cristianesimo. Sempre a patto di non confondere la fede con la bigotteria, ma Gesù aveva parecchio da ridire su quella dei “puri” Farisei del suo tempo. Per cui non vi è nulla di male a chiedere a Dio una casa migliore, anzi, una casa decisamente molto bella o una professione di successo. Dio può aprire delle porte che agli uomini sono impossibili. Ma il limite di tutto ciò è proprio la fede di prega. Se chiedi a Dio di tirare a campare sino a fine mese, questo otterrai. Il fatto che Dio vuole e può molto di più per noi. Ma siccome non lo crediamo, non lo preghiamo neppure e di conseguenza non lo otterremo mai. E la frase d Gesù «Tutto è possibile per chi crede» (Marco 9,23) rimane una bella teoria spirituale che ben poco ha a che fare con la nostra vita concreta di ogni giorno. C’è una falsa vergona religiosa nei confronti di un Padre che – come ogni padre e molto di più – vuole il massimo per ogni singolo figlio e ha desideri e progetti di abbondanza per ognuno, non certo di mediocrità. Per cui dico la mi preghierina banale. Fammi tirare a campare come posso. Poi vado a giocare a Superenalotto e quant’altro. Mi vergogno di chiedere a Dio il successo e il benessere. Per alcuni – “credenti” compresi è meglio chiederlo alla dea fortuna pagana.

Giorgio Nadali


Valori cristiani. 1. Perdono. Benessere dell’anima

 

«Se voi infatti perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi»(Matteo 6,14). «Ognuno di noi perdona in proporzione della sua capacità di amare». (François de La Rochefoucauld). La misericordia è l’amore che va oltre la giustizia. Da essa siamo stati creati ed anche salvati. La capacità di perdonare deriva dal valore principale della carità, cioè dell’amore. La persona oblativa non idealizza l’altro, ne ha un’immagine realistica, sa che l’altro può sbagliare esattamente come lui, anche se sotto diversi aspetti.Molte persone, a causa di un sentimento di colpa profondamente radicato, incontrano notevoli difficoltà a perdonare ed anche a farsi perdonare. Questi individui rifiutano inconsciamente di perdonare, sentendo che è giusto farlo. Spesso rifiutano anche Dio, perché lo vedono attraverso la lente deformante della loro mancata auto-accettazione.  Il cosiddetto “moralismo” (cioè la morale statica, schematica, amministrativa e punitiva) corrisponde infatti ad una forma nevrotica di rigidità morale. La persona“immatura” tende ad idealizzare, cioè ad assolutizzare nel proprio rigido schema mentale, sia le qualità che i difetti degli individui con i quali entra in contatto. È chiaro che identificherà l’amicizia con l’amico, l’amore con la persona amata, ma anche i difetti e gli errori con la persona che li vive.

L’equilibrio emotivo è quindi molto instabile ed esposto continuamente alla frustrazione e alla delusione.C’è una grande saggezza psicologica nell’insistenza della tradizione cristiana che il perdono proviene attraverso la Croce di Cristo. Perché in quest’uomo, ingiustamente processato, torturato e inchiodato a una croce, il cristiano vede dischiudersi le qualità del Dio che è attivo in tutto ciò che avviene. Egli vede nell’uomo crocifisso Dio che attua interamente la sua identificazione con gli uomini e con le donne, a prescindere dalla loro responsività. Se Dio arriva a tanto nel tollerare gli uomini così come sono, allora un uomo dovrebbe essere capace di tollerare se stesso…Bunyan, scrivendo sul cristiano, descrive la propria esperienza. Dopo essere stato tormentato per molti anni da un sentimento di colpa, imparò attraverso la croce a smettere di rifiutare se stesso e ad entrare nella pace del perdonato, la pace di coloro che accettano se stessi perché credono che Dio li abbia accettati… Ogni persona, per realizzare il proprio potenziale come essere umano, ha bisogno di affrontare e accettare il lato cattivo, apparentemente vergognoso, di se stesso. La realizzazione del perdono divino, se correttamente compresa, permette agli uomini di accettarsi; mette termine alla guerra civile all’interno della personalità. Questa pace interiore, questa realizzazione di potersi accettare, segue spesso la realizzazione di essere accettati dagli altri…

Oltre al fatto che molti non riescono ad accettare se stessi finché non si rendono conto di essere accettati da altri, sembra anche che non riusciamo a perdonare a meno che non ci rendiamo conto di essere perdonati. Se un uomo non può accettarsi, ed è sulla difensiva verso una parte della propria personalità, gli sarà impossibile accettare completamente gli altri. Se invece l’uomo ha trovato la pace che deriva dall’aver accettato se stesso, sarà capace e felice di accettare gli altri; non avrà più paura delle ripercussioni che tale accettazione potrebbe avere sul suo intimo. Poiché è in pace con Dio e in pace con se stesso potrà essere in pace con tutti gli uomini». Si perdona per amore verso gli altri, ma anche per amore verso se stessi. Si perdona per continuare a vivere sereni, senza rancore. Non è dimenticare il male ricevuto, ma superarlo per vivere in pienezza. Inoltre, l’incapacità di perdonare rende impossibile comprendere e rendere efficace il perdono di Dio.«Neanche io ti condanno. Và e d’ora in poi non peccare più» (Giovanni 8, 11) «La tua fede ti ha salvato» (Luca 17, 19).“Solamente chi è forte è capace di perdonare.

Il debole non sa ne perdonare ne punire”, diceva Gandhi. «Dimenticare le devastazioni del peccato, dirai, nessuno lo può; resta il rimorso, tenace, lancinante. Se la tua immaginazione ti presenta l’immagine distruttrice del passato, sappi che Dio non ne tiene conto. L’hai capito? Per vivere il Cristo in mezzo agli altri, uno dei rischi più grandi è il perdono. Perdonare e di nuovo perdonare, ecco ciò che cancella il passato e immerge nell’istante presente. Portatore del nome di Cristo, cristiano, per te ogni istante può diventare pienezza… Non si perdona per interesse, perché l’altro cambi. Sarebbe un calcolo miserabile che non ha nulla da spartire con la gratuità dell’amore. Si perdona a causa del Cristo». Così scriveva Frere Roger Schutz, fondatore della comunità ecumenica di Taizé, in Francia. Ventidue anni dopo – nel 2005 – all’età di novant’anni, fu accoltellatoil 16 agosto da una squilibrata romena durante la preghiera comune della sera nella chiesa della riconciliazione, davanti a tremila fedeli. Ai suoi funerali i suoi confratelli dissero: «Dio di bontà, noi affidiamo al tuo perdono LuminitaSolcan che, in un atto malsano, ha messo fine alla vita del nostro fratello Roger. Insieme a Cristo sulla croce, ti diciamo: Padre, perdonala, non sa quello che ha fatto (Luca 23,34). Spirito Santo, ti preghiamo per il popolo di Romania e per i giovani romeni talmente benvoluti a Taizé». L’unica via di uscita alla spirale del mistero del male è il perdono. Solo perdonando si può proseguire serenamente il cammino della vita, perché – come diceva Nelson Mandela – il perdono libera l’anima e cancella la paura.

Giorgio Nadali