I concorrenti di Gesù Cristo e gli altri Messia

Tre gli storici “concorrenti” del Messia Gesù Cristo: Apollonio, Simon Mago e Simon Bar Kokhba (135 d.C.).  Gesù Cristo – quello vero – lo aveva predetto: «Sorgeranno infatti falsi cristi e falsi profeti e faranno grandi portenti e miracoli, così da indurre in errore, se possibile, anche gli eletti». (Matteo 24,24). Il più noto falso Cristo, seguito da 100.000 fedeli è oggi José Luis de Jesús Miranda, nato nel 1946 a Porto Rico.  È il fondatore e capo della Creciendo en Gracia, un movimento che insegna la “dottrina della grazia” con base a Miami, Florida (USA). Miranda sostiene di essere Gesù Cristo tornato sulla Terra e al tempo stesso di essere l’Anticristo, mostrando un tatuaggio con “666” sul braccio.

Un altro noto falso Gesù Cristo è Hamsah Manarah, anno 1969. Il guru nacque da una famiglia cattolica francese. Oggi sostiene di essere il “Messia Cosmoplanetario”.  L’Aumismo da lui fondato è la setta più sincretista esistente. Il sincretismo è l’unione di più tradizioni religiose.

Nel 1936 Gesù Cristo appare al sedicenne Sun Myung Moon e gli chiede di portare avanti la missione che duemila anni fa non riuscì a completare. Moon è stato considerato il nuovo Messia (miliardario) da due milioni di persone nel mondo in 120 paesi. Sino alla sua scomparsa nel 2012 lui e sua moglie erano considerati i veri genitori dell’umanità. Nel Divine Principle, testo base della Chiesa Unificazionista si trovano alcune credenze sorprendenti: Due cadute dell’umanità. Due redenzioni necessarie. Eva, nel Paradiso Terrestre ebbe rapporti sessuali con Lucifero. Ecco spiegata la causa della caduta spirituale dell’uomo. I suoi rapporti intimi, questa volta col legittimo, ma immaturo consorte Adamo, causarono la caduta fisica dell’uomo.  Moon (1920-2012) era il terzo Adamo (dopo il Primo Uomo e Gesù Cristo), chiamato a redimere fisicamente l’umanità, dopo la redenzione, solo spirituale, portata da Cristo. Moon è uno dei cento coreani che si sono proclamati “Il Cristo” nel secolo scorso. Moon sostenne che la vera missione di Gesù era quella di restaurare la famiglia originale, quella che Adamo ed Eva avrebbero dovuto realizzare prima della caduta; essendo Gesù morto prima di aver contratto matrimonio, si è reso necessario un secondo avvento del Messia. Il matrimonio di Moon e della moglie è stato dunque indicato come prima vera famiglia originale, quindi in qualche modo genitore autentico di tutta l’umanità. Tra le attività certamente più note del Reverendo Moon ci sono i matrimoni di massa organizzati negli stadi, chiamati benedizioni. Intanto iniziano le prime accuse da parte dei familiari di persone che hanno aderito alla setta, riguardo a lavaggio del cervello e altre costrizioni per far rimanere gli adepti nella setta. Nel 2001 l’ex vescovo cattolico Emmanuel Milingo ha sposato un’adepta ed è passato alla setta di Sung Myung Moon.

Gli altri sedicenti Messia della storia sono: Salomon Ha-Cohen (Salomone ha-Coen) (XII sec.), David Altroy (Davide Altroi) (XII sec.), Abraham Aboulafia (Abramo Abulafia) (1249-1291), Jacob (Giacobbe) detto “Il Maestro di Hongrie” (XIII sec.), Mosè Botarel (Mosè Botarel) (XV sec.), Asher Lämmlein (Aser Lamlein) (XV-XVI sec.), Thomas Münzer (Tommaso Munzer) (1489-1525), David Rubeni (Davide Rubeni) (XV-XVI sec.), Joh Bockleson (Giovanni Bocleson) (1510-1536), David Jorisz (Davide Gioriszo) († 1556), Jacob Boehm (Giacobbe Boem) (1576-1624), William Hracket (Guglielmo Archet) († 1591), Simon Morin (Simone Morin) († 1663), Jean Desmarets de Sain-Sorlin (Giovanni Desmare di San-Sorlino) (1595-1676), Sabbatai Zevi (Sabatai Zevi) (1626-1675), Quirinus Kuhlmann (Quirino Culman) (1651-1689), Jacob Zevi (Giacobbe Zevi) (1650-1695), Jonatan Eybescütz (Gionata Eibescut) (1690-1764) Emmanuel Swedberg (Emanuele Svedberg) (1668-1772), Neemia Chija Chajun (Nemia Chigia Cagiun) (1650-1733), Mosè Chajim Luzzatto (Mosè Cagim Luzzatto) (1707-1747), Yankiew Leibowitz (Ianchiev Leibovit) (1712-1791), François Bonjour (Francesco Bongiorno) (XVIII sec.), Jacob Frank (Giacobbe Franco) (1727-1791), Nachman di Brazlav (Nacman di Braslavia) (1772-1810), Joseph Smith (1805-1844), Alì Mohammed (Alì Moamed) (1821-1850), Jean Baptiste Digonnet (Giovanni Battista Digonnet) (XIX sec.), Oreste De Amicis (detto “il Cristo degli Abruzzi”) (1824-1889), Davide Lazzaretti (detto “il Cristo dell’Amiata”) (1834-1878), Luis Riel (Luigi Riel) († 1885), Guillaume Mond (Guglielmo Mond) (1800-1896), Simon Kinbangu (Simone Chimangu) († 1950), James Waren Jones (GiacomoWaren Jones) (1931-1978), Menachen Mendel Scheerson (Menache Mendel Scheerson) († 1994) (detto “Il Messia di Brooklin).

Giorgio Nadali

 

 

 


Vimana. Il disco volante sacro

UFO religiosi? Sì. Il vimana è un oggetto volante meccanico, descritto in diversi antichi testi induisti. Si parla dei vimana nelle guerre mitologiche descritte nei testi sacri Mahābhārata e Ramayana. Secondo i testi sacri, i vimana sono in grado sia di volare nell’aria, nello spazio e anche sott’acqua. Rimane ovviamente il mistero di come testi così antichi potessero concepire le attuali tecnologie moderne. Il Ramayana è del II secolo a.C. e il Mahābhārata è del IV secolo a.C. Negli antichissimi testi induisti – i Veda – sono citati diversi tipi di vimana, con forme e dimensioni varie, tra cui i agnihotra-vimana, (“agni = fuoco”) con due motori  e il gaja-vimana, con più di due (“gaja” = elefante).

Il Vaimanika Shastra è un manuale che spiega come pilotare un vimana e le sue caratteristiche tecniche. Sono anche descritte altre tipologie: il Martin pescatore, l’ibis, e altri animali. La parola vimana deriva da vi-mana, cioè “Luogo di cui sono state prese le misure”. La parola ha anche il significato di tempio Indù. La parola vimana dall’unione di “vi” (“uccello”) e “mana” (“abitato”). Nelle ultime scritture sono descritti altri veicoli volanti, e qualche volta sono fatti riferimenti poetici persino a veicoli terrestri. In alcune lingue moderne indiane, la parola vimana è usata per indicare un aeroplano.

Anche nel libro Buddhista Vimanavatthu («Storie di Vimana») si usa la parola “vimana”, che indica un breve testo usato come ispirazione o un sermone buddhista. Il Vaimanika Shastra scritto nel 1918 («Scienza dell’Aeronautica») è un testo che spiega come costruire le macchine volanti vimana descritte nei testi sacri, anche se le strutture descritte sono in realtà piuttosto anti aereodinamiche, tranne il rukma vimana.

La velocità della luce è di 299.792,458 km/secondo. Una scoperta dell’astronomo inglese James Bradley nel 1728. Tuttavia un testo sacro – il Vishnu purana – del I secolo a.C. già la conosceva! Nel testo in antico sanscrito nimisha significa ciò che lampeggia come il batter di ciglia e Nimisharda è utilizzato per rappresentare la luce perché viaggia “in un batter d’occhio”. L’unità di distanza è chiamata Yojana è definita nel capitolo sei del libro uno del testo antico vedico Vishnu purana come segue: 4 Gavyútis = 1 Yojana = 9,09 km. Il valore della velocità della luce sulla base del valore di 2.202 yojana in 1/2 nimesa = 2.202 per 9.09 miglia per 0.1056 secondi = 20.016,18 miglia per 0.1056 secondi = 189.547 km/secondo. Il valore si avvicina a quello della scienza moderna.

Giorgio Nadali


Scientology. Il Tono 40 che fa risuscitare i morti

La Chiesa di Scientology è stata fondata nel 1954 dallo scrittore statunitense L. Ron Hubbard (1911-1986). Il termine chiesa non ha alcun riferimento al Cristianesimo. I fedeli nel mondo sono otto milioni, secondo Scientology. “Hubbard disse: ‘Un bambino è stato dichiarato morto da un medico e l’auditor [guida di Scientology] può richiamare il suo thetan [spirito] e ordinargli di riprendere il corpo riportandolo in vita’.

Il guaritore ha da tre a quattro minuti per far risuscitare la persona. Devono comandare: “Torna e riporta in vita questo corpo!” oppure ordinare al cadavere: ‘Torna qui e riprendi il tuo corpo immediatamente! Prendilo! Te lo ordino! Subito!’. Se queste tecniche non funzionano provate a obbligare la persona a tornare facendola pensare ai suoi familiari e amici… Questo tipo di comando è noto come Tono 40 e si apprende durante una Routine di allenamento di Scientology (TR). Queste tecniche servono a migliorare la comunicazione. I membri di Scientology fanno pratica del Tono 40 con un portacenere, dandogli comandi in modo che si muova da solo secondo le loro intenzioni”.

Giorgio Nadali

 


La simbologia sessuale buddhista tibetana e gli altri simbolismi sessuali delle religioni. V.M. 18

 Lao Tzu, fondatore del Taoismo diceva: «La gentilezza delle parole crea fiducia. La gentilezza dei pensieri crea profondità. La gentilezza nel donare crea amore». Fatto sta che le religioni mondiali usano spesso il simbolismo sessuale in miti e metafore, riti e rituali, storie e sculture, come mezzo per esprimere la relazione con il trascendente.

Un simbolo chiave nel Buddhismo tibetano Vajrayanico è la figura yab-yum, una coppia di divinità maschile e femminile intenti in un’unione sessuale, la quale rappresenta la nozione basilare buddhista che la saggezza e la compassione devono congiungersi per ottenere il nirvana. I seguaci più avanzati del Buddhismo tibetano possono anche usare la “mente beata” dell’orgasmo sotto condizioni disciplinate per comprendere la verità attraverso la “mente della luce chiara”. Nell’orgasmo la mente diviene completamente assorbita e la solita mente concettuale, le apparenze che la accompagnano si sciolgono lasciando la realtà fondamentale. Qui un vento fisico, piuttosto che una scultura, un dipinto o un’immagine, fornisce un simbolismo sessuale che punta verso il trascendente. In molte tradizioni – con eccezione del Buddhismo – il simbolismo sessuale religioso è unito con il linguaggio dell’amore, collocando questi simboli nel contesto di un amore che trasforma.

Gendün Chöpel è l’intellettuale più controverso del Buddhismo tibetano, autore del «Trattato sulla passione». Questa guida sessuale rivolta ai laici combina i classici erotici indiani come il Kamasutra con la cultura buddhista Vajarayana. Chöpel sostiene l’uguaglianza sociale per le donne, la valorizzazione del piacere sessuale femminile e l’esplorazione sessuale in un’etica di sostegno dell’amore. La sua prospettiva tantrica vede l’attività sessuale comune come base per un possibile sviluppo di una straordinaria intuizione, ponendo l’accento sulla compatibilità del piacere sessuale con l’intuito spirituale. Chöpel spiega che le sessantaquattro arti dell’amore intensificano il desiderio e l’orgasmo e possono aprire una porta sull’esplorazione della natura della coscienza. Nell’orgasmo la natura chiara della mente è più percepibile e questo sottile livello di coscienza dissolve l’apparente solidità delle percezioni ordinarie, sino a che anche il desiderio stesso viene trasceso. Le evocative descrizioni delle tecniche e posizioni sessuali fatte da Chöpel sono accessibili, giocose, femministe e un adattamento istruttivo degli alti ideali buddhisti alla vita di tutti i giorni.
L’Induismo ha quattro principi fondamentali : dharma (legge morale), kama (piacere), artha (potere, beni materiali), mokṣa (liberazione dalle rinascite). I testi che si occupano del kama compresi il Kamasutra di Vatsyayana (monaco che viveva in castità assoluta, ma dotato di viva immaginazione – 300 d.C.) descrivono il piacere sessuale invocando parole come rasa (gusto estetico), bhava (atteggiamento emotivo), rati (passione), priti (amore), raga (attaccamento) e samapti (orgasmo). Un’altra parola sanscrita molto usata per descrivere il principio del piacere sessuale è bhoga (godimento) e si riferisce anche ad altri situazioni come il consumo di cibo. Il piacere va vissuto in gioventù, preferibilmente nella grhastha-asrama (vita matrimoniale) per donare la vita. Il matrimonio può essere celebrato (e non consumato) anche da bambini. Dopo aver assolto gli obblighi genitoriali è possibile abbracciare la vita ascetica celibataria (samnyasa-asrama).

Lo Zohar, un testo ebraico cabalistico caratterizza l’idea ebraica della sacralità del sesso suggerendo che l’Essenza Divina “riposa sul letto nuziale” quando la coppia è “unita nell’amore e santità”. Nell’Induismo un linga (pene) come il Shiva linga di marmo del famoso tempio Kandariya Mahadeva di Khajuraho (India) è collocato nel garbhagriha (luogo più interno del tempio indù) per ricordare al devoto che la completezza assoluta dell’unione dei principi maschile e femminile. Lo stesso simbolismo è usato nell’Ebraismo (Zohar) perché la Shekhinah (presenza divina) si rivela al lettore della Torah (l’amante) come fanciulla nascosta in una camera segreta del palazzo, come la garbhagriha indù. Nell’Induismo il linga (pene) che posto al centro della yoni (vagina) nello linga-yoni dei templi rappresenta l’unione del dharma (legge) con la shakti (potere) e tutta la shakti (con soddisfazione delle lettrici) è sempre femminile. Il grembo punta al Brahman (la realtà ultima) e il linga-yoni punta alla generazione della vita da Brahman e l’unione ultima in Brahman dei diversi elementi apparenti del mondo, maschile e femminile.

Nell’Islàm le houris, fanciulle che allietano i devoti maschi in paradiso hanno il nome di Dio scritto su un seno e il nome del marito sull’altro [o eventualmente sino a quattro nomi dei quattro mariti su un seno?

Anche nel Cristianesimo la simbologia sessuale non manca, soprattutto presente nel Cristianesimo medievale delle “spose mistiche” come Santa Teresa d’Avila. Bernini rappresenta nella sua Estasi di Santa Teresa l’incontro con Dio che le appare come angelo con una lancia. Tradizionali simboli fallici sono la lancia, la freccia e il serpente e nel caso di Angela da Foligno di una falce che la riempie con inestimabile sazietà.

Unito al linguaggio dell’amore il simbolismo religioso sessuale evoca anche la reciprocità della relazione, il desiderio di divenire complementari al divino, com’è evidente nella nozione ebraica di sesso sacro, nell’iconografia indù della coppia divina come Shiva e Parvati o Krishna e Radha, ma anche nella simbologia dello yin-yang taoista.
La Sahajiya, una setta tantrica del Bengala usa il coito rituale (maithuna). Lo scopo del sesso rituale di Sahajiya è di trasformare il desiderio (kama) in amore (prema) e va fatto con una parakiya, una donna non sposata o impegnata con un altro. Non vi è però eiaculazione perché il seme va diretto in altro verso la susumna nadi (canale del corpo che collega i chackra, punti vitali) al sahasrara padma dove viene goduta la beatitudine di Radha e di Krishna.

L’enorme varietà nell’uso del simbolismo sessuale è evidente, ma non è usato allo stesso modo in tutte le religioni. Nell’Induismo e nel Cristianesimo le immagini sessuali servono come puntatori verso una realtà trascendente, mentre nel Buddhismo sono strumenti per svuotare la mente e raggiungere il nirvana la “pienezza dello svuotamento”. Un aspetto importante delle tradizioni asiatiche è il posto preminente che viene dato al femminino sacro, forse in parte perché la religione induista proviene da culture agresti più orientate verso le donne. Vi è un contrasto con le culture maschili del Medio Oriente, all’interno delle quali sorse il monoteismo occidentale orientato verso i maschi, dove predomina il modello di maschio come pastore. In ogni caso, nonostante questa evidente diversità vi è un “estetico erotico” nell’utilizzo umano del mito e del simbolo, della danza e della musica, della storia e della teologia, della pittura e della scultura che puntano verso il divino.

Le immagini erotiche si sono trasferite nella vita monastica cristiana, ma anche nel Giudaismo hassidico, in una rappresentazione erotica dell’incontro tra l’umano e il divino. All’interno della tradizione cabalistica giudaica, nonostante le immagini erotiche non siano usate per rappresentare l’incontro tra umano e divino, come sostiene lo studioso Gershom Scholem, Dio viene visto come il centro della sessualità: «in Dio vi è un’unione dell’attivo e del passivo, procreazione e concepimento, da cui proviene tutta la vita e la beatitudine». Nella tradizione islamica troviamo una simile estetica erotica in Rumi, il più grande dei poeti e mistici persiani. […] Infine un’altra forma occidentale per comprendere la relazione tra umano e divino in chiave erotica si trova nel famoso testo cabalistico mistico giudaico, lo Zohar o “Libro dello Splendore”. Anche se non eroicizza direttamente la relazione tra umano e divino, lo fa indirettamente delineando la stessa Torah come l’amante del lettore devoto alla sua lettura.

Duti puja

Nel tantrismo il duti puja è l’adorazione di una bella donna, che comprende il pancamakara. Il rito noto come pancamakara o dei “cinque essenziali” è officiato con cinque ingredienti che in sanscrito iniziano con la “m” e di cui solo i primi quattro si comprano al supermercato: grano (mudra), pesce (matsya), liquore (madya), carne (mamsa), e rapporto sessuale (maithuna). Viene anche definita come “Eucaristia Tantrica”. Lo scopo del rito è di svegliare i poteri spirituali e di soddisfarli. Sono invocate le divinità: Shiva e Shakti, Mahadeva e Mahadevi, Bhairava e Bhairavi. Le coppie cosmiche.

La coppia siede di fronte ad un fuoco. La donna alla sinistra del suo compagno. Il lato sinistro è infatti femminile, quello destro, maschile. La coppia inginocchiata unisce le mani nel tradizionale gesto di saluto namaste. Gli elementi vengono in parte versati nel fuoco e in parte imboccati alla partner, che rappresenta la divinità. Fatto questo la coppia gira intorno al fuoco tre volte e mezza, tante quante le spire della kundalini, l’energia sessuale. La donna è ritualmente elevata e purificata allo stato delle dee (Devi) mediante la meditazione e il nyasa. Il nyasa è il rituale che pone delle preghiere (mantra) o lettere sul corpo mediante il tocco o la visualizzazione, rendendolo divino e riempiendolo col potere della Shakti (il potere creativo di Shiva rappresentato dalla sua consorte). Poi ogni parte del corpo della donna viene adorata, in particolare il volto, i seni e l’organo genitale (yoni). Le sono offerti alcol, carne cotta e pesce. Il rituale culmina con il rapporto sessuale (maithuna) dell’adepto con lei. Nel coito (maithuna) la donna deve avere il controllo. L’unione è simbolica dell’unione del dio Shiva con la sua Shakti. Il maithuna rappresenta lo stato assoluto di beatitudine.

In contrasto con la concezione occidentale, nella tradizione asiatica le femmine e quindi le devi sono viste come attive, immanenti e accessibili, mentre le divinità maschili tendono ad essere passive e (come in Occidente) trascendenti e non facilmente accessibili. Da ciò deriva la forma iconografica più importante dell’Induismo, il linga/yoni shivaita, è sia una forma iconografica parziale con un volto sul linga [pene], sia una forma aniconica che simboleggia l’infinito. In maniera significativa in questa immagine estetica erotica il linga si erge dalla yoni mettendo in evidenza un simbolismo generativo più profondo all’interno del simbolismo sessuale e illustra la fondamentale dottrina induista per la quale tutto il potere è femminile (ad esempio la shakti) e di conseguenza l’energia maschile non è incipiente, ma costantemente reindirizzata dall’energia femminile.

Le tradizioni cinesi condividono una visione simile dell’estetico erotico nella complementarietà dei principi maschili e femminili dello yin e yang. In questa visione è importante che tutto lo yin ha un po’ di yang e viceversa. Perciò lo yin [femminile]e lo yang [maschile] sono interdipendenti e l’ideale è di evitare la contrapposizione e ottenere un bilanciamento tra loro. Nelle tradizioni cinesi, il Taoismo aggiunge anche l’idea della Grande Madre e che la femmina ha un’inesauribile forza vitale che può dare nell’unione.
L’uso del simbolismo sessuale non significa che Dio abbia un corpo, ma deve esserci qualcosa di letterale nel simbolismo e questo implica che Dio può essere letteralmente concepito sia come personale sia come sessuato.

Giorgio Nadali

direttore@oltre.online

Giorgio Nadali, “Sessualità, Religoni e Sette. Amore e Sesso nei Culti mondiali”, Armando Editore, Roma, 1999

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Quando una sola moglie non basta

C’è chi è stufo anche dell’unica che ha, ma avere più mogli oggi è legale in quarantasette Paesi al mondo (su 197). Quello più vicino all’Italia è l’Algeria. Solo i membri della Chiesa Fondamentalista di Gesù Cristo e dei Santi degli Ultimi Giorni praticano ancora oggi la poligamia. La loro Chiesa ufficiale l’ha abbandonata nel 1890, tuttavia solo il ramo fondamentalista negli Stati Uniti d’America prosegue illegalmente nella poligamia voluta dal fondatore Joseph Smith. Il motivo è semplice. Basta aprire la Bibbia. Davide aveva un intero harem. Betsabea fu l’ultima conquista. (2 Samuele 11). Elkana «aveva due mogli, una chiamata Anna, l’altra Peninna». (1 Samuele 2). Roboamo aveva «diciotto mogli e sessanta concubine e generò ventotto figli e sessanta figlie». (2 Cronache 11,21). «Abia prese quattordici mogli» (2 Cronache 13,21) e Gedeone ebbe molte mogli che gli diedero ben settanta figli. (Giudici 8,30). Ma il record spetta al re Salomone con settecento mogli e trecento concubine.

Un ricambio al ritmo di tre donne al giorno per un anno intero. Non faceva altro: «Aveva settecento principesse per mogli e trecento concubine; le sue donne gli pervertirono il cuore» (1 Re11,3) che però resistette sino a ottant’anni. Per questo motivo i Mormoni pensarono bene di approvare la poligamia. Il fondatore Joseph Smith, nella rivelazione del luglio 1843 fece riferimento alle mogli e concubine di Mosè, Davide e Salomone. (Doctrines and Covenant 132:37-40) Tuttavia l’avere più mogli è una pratica che dalla fine del XIX secolo entrò in disuso tra i fedeli di Smith, perché in contrasto con le leggi civili degli Stati Uniti e fu sempre motivo di divisione interna per i Mormoni. San Paolo esalta la monogamia (Romani 7, 2-3).

Ma i membri della Fundamentalist Church of Jesus Christ of Latter-Day Saints (FLDS) vogliono ancora tante mogli. Loro e le loro numerose consorti vivono a Hildale (Utah), Colorado City (Arizona), Cedar City (Utah), Modena (Utah), Pringle (Sud Dakota), Eldorado (Texas), Lund (Nevada), Lowell (Wyoming), Pinesdale (Montana), Mancos (Colorado). Il fondatore della Fundamentalist Church of Jesus Christ of Latter-Day Saints è Warren Steed Jeffs. Dopo essere stato sulla lista dei dieci più ricercati dell’FBI, il 29 agosto 2006 è stato arrestato e il 9 agosto 2011 è stato condannato all’ergastolo per abusi sessuali e stupro di minori, due delle quali erano le sue mogli dodicenni. Durante il processo si difese leggendo il Libro di Mormon, il testo sacro mormone. Jeffs controlla tuttora la Fundamentalist Church of Jesus Christ of Latter-Day Saints da dietro le sbarre. Nello stato dello Utah oggi vivono quarantamila persone poligame. Cercano la licenza legale per il primo matrimonio e poi si sposano clandestinamente per le altre nozze. Le mogli si mostrano in pubblico come madri non sposate.

Se invece vuoi avere più mariti non ti resta che recarti in Tibet, in Nepal o Sri Lanka (per la legge Kandyan). La poliandria è presente anche nell’Induismo, citata nel poema Mahabharata. Nel Buddhismo tibetano è lecita la poliandria adelfica. Una donna è sposata anche con tutti i membri maschili della famiglia del marito. La molteplicità di mariti è presente anche tra i Maasai  e i Gyliak e gli Inuit eschimesi.

Giorgio Nadali


A spasso per l’Aldilà. 1

Inizia oggi la nostra serie di carrellate su aspetti particolari della credenza sulla vita ultraterrena nel mondo. Aspettiamo i vostri commenti! Buon viaggio!

ZOMBIE (Vodou)

I film dell’orrore li hanno resi celebri. Sono i morti viventi. Per il culto animista del Vodou di Haiti esistono veramente. Per capire in quale contesto si inserisce il vero zombi, dobbiamo ricordare che Vodou vuol dire “spirito”. Il Vodou anima la società di Haiti. Sebbene quando si pensa al Vodou ci viene istintivamente in mente qualcosa che ha a che fare con la magia nera e la stregoneria, il Vodou è qualcosa di più complesso e profondo. E’ la religione popolare di Haiti, che si è formata attraverso la commistione di antiche credenze di origine africana (Benin). Per Mons. Guy Poulard, vescovo di Haiti, una buona parte della popolazione partecipa ai riti Vodou di notte e a quelli cattolici di giorno. La forza del Vodou può essere usata per il male, ma anche per il bene. Ad Haiti vi è un rapporto molto particolare con i propri defunti. I bambini giocano sulle tombe di famiglia situate nel giardino di casa, buone anche per stendervi la biancheria lavata. La zombificazione di una persona è una forma di stregoneria del Voodoo di Haiti. Consiste in una morte apparente per togliere la libertà ad una persona, non più meritata a causa di qualche gesto grave compiuto, come l’omicidio o lo stupro. Chi ha subito un torto può rivolgersi ad uno stregone Voodoo, chiamato bokor. Lo zombie diverrà come uno schiavo. Potrà essere venduto e comprato. Se la persona che ha acquistato lo zombie muore, allora potrà riscattarsi (mediante una pozione antidoto), ma non potrà tornare al suo villaggio di origine, poiché è stato condannato. Come avviene la condanna per zombificazione? Tecnicamente attraverso una neurotossina che induce una forma catalettica che prelude ad un avvelenamento successivo più grave e talvolta alla morte. Mediante dei rospi di tipo amazzonico (Bufo alvarius, Bufo marinus) oppure il veleno del pesce palla, si estrae la bufotenina (5-MEO-DIMETILTRIPTAMMINA), o tetradotoxina (TTX), da cinquanta a cento volte più potente della digitale. Il condannato sembra clinicamente morto e viene seppellito ancora cosciente. Di notte il corpo dello zombie viene risvegliato dal bokor in un cimitero, con un’altra sostanza che cancellerà la personalità del condannato e lo renderà un automa, suo schiavo. Sarà senza memoria e volontà, con occhi vitrei e voce nasale. Potrà essere venduto. L’antidoto usato è la datura, una pianta che contiene nei semi e nei fiori degli alcaloidi come la scopolamina e l’atropina. Alcaloidi che producono effetti di controllo mentale. La parola zombie deriva da quella creola Nzambi, una divinità dell’Africa occidentale. La pratica di zombificazione non è molto frequente ed esiste ancora oggi, ma il governo haitiano non ha alcun controllo su queste pratiche clandestine e illegali. La zombificazione spaventa molto la gente di Haiti, anche perché ricorda l’antica schiavitù. Il cinema si è ispirato a questa pratica reale per i film sugli zombie.

CIMITERI (Cristianesimo)

I luoghi di sepoltura si chiamavano anticamente “Necropoli”, cioè “Città dei morti”. Con la nascita del Cristianesimo il termine è mutato in “cimiteri”. Questa parola proviene dal greco koimetérion, “luogo di riposo”: il verbo κοιμᾶν (“koimân”) significa “fare addormentare”. Questo è dovuto alla fede cristiana nella risurrezione di coloro che vi sono sepolti, che si risveglieranno per la risurrezione, secondo la promessa di Gesù nel Vangelo di Giovanni 6,40.

INDULGENZE (Cristianesimo cattolico)

La dottrina dell’indulgenza è nata in ambito cattolico si riferisce alla credenza nella possibilità di cancellare una parte ben precisa delle conseguenze di un peccato (detta pena temporale), dal peccatore che abbia confessato sinceramente il suo errore e sia stato perdonato tramite il sacramento della confessione. A seguito della riforma protestante, che contestò questa dottrina sostenendo che essa non abbia un fondamento nella Bibbia, rimase un uso prettamente cattolico. La vendita delle indulgenze spaccò la Chiesa con la Riforma protestante di Martin Lutero, nel 1517, il quale rifiutava il valore delle indulgenze e soprattutto il fatto di offrirle a seguito di un’offerta di denaro. Con la vendita delle indulgenze è stata edificata la Basilica di San Pietro in Vaticano. Ancora oggi si dice “lucrare un’indulgenza”, da “lucro”, cioè denaro. Ovviamente le condizioni non riguardano più il denaro per acquistare la bolla di indulgenza. Lucra validamente un’indulgenza chi riceve il Sacramento della Riconciliazione (Confessione), l’Eucaristia, recita il Credo, prega secondo le intenzioni del Papa. Chi muore martire o dovesse morire subito dopo aver lucrato validamente un’indulgenza plenaria va direttamente in Paradiso senza passare dal Purgatorio. Quest’ultimo è presente solo nella dottrina cattolica. Il martire “lava” la sua anima dalle pene del Purgatorio col proprio sangue versato a causa diretta ed evidente della sua fede in Cristo. L’ultima martire canonizzata in Italia (nel 1950 da Papa Pio XII) è stata la dodicenne Maria Goretti.

CREMAZIONE (Induismo)

Il funerale può incominciare anche da vivi, col rito dello adya-shrada. Chi non ha figli che possano occuparsi del rito funerario al momento della propria morte o chi ritiene che il proprio funerale non verrà fatto per qualche ragione, può chiedere il rito funerario anticipato (…senza cremazione, ovviamente), chiamato appunto adya-shrada. Normalmente però il rito funerario avviene da morti. E’ il sedicesimo sacramento dell’Induismo, chiamato antyeshti, cioè “cremazione”. Le norme per il rito sono contenute nel testo Aswalayana Grhya Sutra. Gli uomini sono avvolti in un sudario bianco o color zafferano e le donne in uno rosso. Il volto è cosparso da polvere rossa (sindur) simbolo del sacro. Se il defunto è un uomo, il rito verrà officiato da uomini (parenti e amici), se è il defunto è donna, verrà officiato da donne. Per la cremazione vengono utilizzati alcuni ingredienti: muschio, zafferano, legno di sandalo, canfora, legna da ardere, burro chiarificato (detto ghi). La cremazione avviene sempre sulla riva di un fiume. Al termine del processo di combustione, che può durare dalle due alle tre ore e mezza, le ceneri saranno affidate alle acque fluviali. Il corpo è deposto su una kunda (una struttura rettangolare di pietra con un buco nel centro) sulla quale vengono deposte tre cataste di legna e della paglia. Il volto del defunto deve sempre essere rivolto a Nord. Se è uomo, dev’essere prima sbarbato. Il fuoco viene appiccato sempre a partire da Nord. Dev’essere accesa una lampada alimentata dal burro ghi e da questa fiamma va accesa della canfora, la quale a sua volta accenderà la pira. Alla salma vengono rivolte le parole: “Caro defunto!
Dopo la morte, possa il potere della tua vista essere assorbito nel sole, la tua anima nell’atmosfera, possa tu andare nella regione luminosa della terra, secondo i tuoi meriti spirituali, o và alle acque, se quello è il tuo luogo, o alle piante, assumendo corpi diversi”. Nel 1829 venne abolita la pratica della “sati”. Una vedova si immolava da viva sulla pira funeraria del marito a simbolo del suo essere priva del suo valore in sé, senza il marito. Questa pratica è ancora in uso in forma clandestina nell’India rurale. E’ segno di amore immortale e purifica la coppia dai peccati accumulati.

PURGATORIO (Cristianesimo cattolico)

La fede nell’esistenza del Purgatorio è esclusiva del cattolicesimo. A Lione (Francia) il 7 maggio 1274 si apre il 14° Concilio ecumenico. Viene fissato il dogma del Purgatorio, che sarà confermato dai Concili di Basilea, Firenze, Ferrara e Roma (1431-1449) e dal Concilio di Trento (1545-1563) come “luogo e condizione in cui le anime dei morti, giustificati, ma ancora in condizione di peccato, si trovano per completare la purificazione prima di ascendere in paradiso.”

TOMBE EBRAICHE (Ebraismo)

Gli ebrei non mettono fiori sulle tombe, ma sassolini perché ricordano le sepolture affrettate nel deserto al tempo dell’Esodo dall’Egitto (1200 a.C.). Inoltre nella simbologia ebraica, la roccia simboleggia Dio. Il popolo di Israele nell’antichità trascorreva molto tempo nelle zone aride del deserto. Abramo, Isacco, Giacobbe e Lot erano pastori nomadi. Per ritrovare i luoghi dove erano sepolti i loro defunti erigevano delle piccole montagnole di pietre.

ISLAM E DEFUNTI DONNA (Islam)

Muhammad (Maometto) disse: “Mi è stato mostrato il fuoco dell’Inferno e che la maggioranza dei suoi abitanti sono donne”.

TOMBA E CULLA (Cristianesimo)

San Girolamo disse: “La tomba vuota è la culla del Cristianesimo” intendendo con questo che il Cristianesimo nasce con la tomba vuota per la risurrezione di Cristo. Ma disse anche che una donna cessa di essere tale e può essere chiamata uomo quando vuol servire più Cristo che il mondo (Comm. ad Ephesios III,5).

MING BI (Taoismo)

I jīnzhǐ (o míng bì, “denaro dell’ombra”) sono oggetti di carta di bambù o carta di riso, noti anche come “carta degli spiriti”. Modellini di auto, case, ma soprattutto soldi finti con la scritta in cinese e in inglese “Hell banknotes”, cioè “Banconote dell’Inferno”, lo “Hell Passport”, il “Passaporto per l’Inferno” e addirittura un biglietto aereo finto con la scritta “Hell Airlines”, Linee Aeree dell’Inferno. I fedeli li comprano nel “negozio di carta per il mondo degli spiriti”, che si trova spesso vicino ad un tempio taoista e li bruciano – dopo averle ben piegate – in un apposito piccolo forno dentro il tempio. In questo modo i propri defunti avranno molte cose nell’aldilà e saranno liberi dall’inferno. L’immagine sulle banconote è dell’imperatore di giada, Yù Huáng, guardiano dell’aldilà. L’esatta parola cinese sulle banconote è diyu, che significa “prigione ultaterrena”. I jīnzhǐ vengono in genere bruciati insieme ai yunbao, piccoli lingotti d’oro finti. Attenzione. E’ molto offensivo darne una a una persona vivente. Esistono anche le Paradise Banknotes, banconote (finte) per il paradiso, bruciate in onore degli déi taoisti. Dal 2006 in Cina è però proibito dal ministero per gli affari civili bruciare i modellini di carta di auto e case perché è ritenuta una pratica feudale.

CHIESA E INFERNO (Cristianesimo cattolico)

La Chiesa non cita alcun nome di persona che sia con certezza all’Inferno. Non si può sapere se un pentimento possa essere giunto anche negli ultimi istanti di vita come è narrato nel Vangelo per uno dei condannati alla crocifissione accanto a Gesù. Solo Dante Alighieri nella Divina Commedia fa dei nomi di persone che lui riteneva fossero dannate. La Chiesa fa nomi certi di persone solo per il Paradiso. Questo vale per tutte le Chiese cristiane – ortodossi, cattolici, anglicani, protestanti.
Papi all’Inferno
Secondo Dante Alighieri vi sono 6 papi all’Inferno. Nella “La Divina Commedia” sono: Niccolò III (Giovanni Gaetano Orsini, 1277-1280) nella terza bolgia dell’ottavo girone dell’Inferno, per i simoniaci (venditori di cose spirituali) insieme a Bonifacio VIII (Benedetto Caetani, 1294-1303) e papa Clemente V (Betrand de Gouth, 1305-1314). Bonifacio VIII è citato anche nella bolgia VIII per i consiglieri fraudolenti insieme a papa Silvestro I (314-335). Nel sesto cerchio vi è papa Anastasio II (496-498) con gli eretici. Infine papa Celestino V (Pietro Angeleri, 1294) nell’antinferno con gli ignavi. Di questi papi Celestino V è santo.

MARTIRI (Cristianesimo, Islam)

E’ una delle massime aspirazioni per ogni uomo musulmano. Non solo fondamentalista. Si chiama talab alsahada, l’aspirazione a diventare un sahada (un martire). E questo, a differenza del martirio cristiano (che significa perdere la propria vita a causa della fedeltà a Cristo), vuol dire quasi sempre far morire anche altre persone in nome dell’Islam. Il conflitto israelo-palestinese ne ha conosciuti molti negli ultimi anni. Campi specializzati addestrano giovani celibi, pronti a morire in mezzo ai discendenti di Davide, imbottiti di esplosivo, per la causa dell’Islam. Un martire è già puro. Morendo per l’Islam uccidendo altre persone, ha il Paradiso garantito. E non un Paradiso qualsiasi. Uno molto sensuale: “Invece i timorati di Dio staranno in luogo sicuro – fra giardini e fontane – rivestiti di seta e di broccato, faccia a faccia. Così sarà. E daremo loro in ispose fanciulle dai grandi occhi neri, – e là chiederanno ogni sorta di frutti e ne godranno sicuri”. (Sura del fumo “ad-Dukhan” XLIV,51-54)

Nel Cristianesimo invece il martire è un testimone (dal greco martyrion) della fede, a costo della propria vita. Il detto “vita, morte e miracoli” deriva proprio dal processo per dichiarare santo (canonizzare) un fedele. Vengono infatti esaminate la vita, il momento della morte e almeno un miracolo avvenuto per sua intercessione sua. Solo per i martiri il miracolo non viene più richiesto, per volontà di papa Paolo VI. L’ultima martire canonizzata in Italia (nel 1950 da Papa Pio XII) è stata la dodicenne Maria Goretti.

DEFUNTI DA BERE (Religione tribale Yanomami)

Gli indigeni Yanomami del Sud America non seppelliscono i defunti. Li cremano e mescolano le ceneri con una bevanda alla banana. Il parente più prossimo poi beve la miscela. In questo modo lo spirito del defunto è soddisfatto e non torna a tormentarli.

PARADISO ISLAMICO (Islam)

Le Huri, ḥūr o ḥūrīyah secondo la tradizione islamica sono delle fanciulle che attendono nel paradiso coloro che nel giorno del giudizio arriveranno lì. Secondo la tradizione le Huri sarebbero giovani ragazze perennemente vergini il cui compito sarebbe quello di ricompensare l’uomo arrivato nel paradiso. Sempre secondo la tradizione, le giovani avrebbero la capacità di concepire e generare. Per il sesso femminile esistono ugualmente gli ghulām. Nel Corano la parola hûr indica le giovani fanciulle vergine promesse ai credenti. La radice di questa parola è collegata all’idea di “bianchezza” in particolare ai grandi occhi della gazzella e al contrasto tra il bianco dell’occhio e il nero della pupilla, hawrâ’ è una donna dai grandi occhi neri e dalla pelle molto chiara. Quasi tutti i versetti che parlano di hûrî sono del periodo meccano, quando è particolarmente sentito da Muhammad il tema del Giudizio Universale. I versetti coranici ci dicono che non sono mai state toccate né dagli uomini né dai jinn, la sostanza da cui sono state create per alcuni è lo zafferano, per altri sono di zafferano, muschio, canfora e ambra. I loro muscoli sono delicati e i loro tendini paiono fatti di fili di seta. Sui loro seni sono iscritti due nomi: da una parte quello Dio, sull’altro quello del proprio marito. Vivono in castelli con 70 letti, hanno 33 anni come i loro mariti, la loro verginità viene rinnovata eternamente, il loro corpo è sempre puro, non hanno mestruazioni, bisogni umani. Le donne che in vita sono state virtuose in Paradiso si ricongiungeranno al proprio marito e lì continueranno la loro vita insieme. Se una donna in vita ha avuto più mariti ne sceglierà uno, mentre gli uomini poligami avranno diritto a tutte le mogli legittime. I commentatori però non dicono nulla sulla sorte di quelle donne che andranno in Paradiso, ma che in vita non sono state sposate. Su questa base coranica la tradizione ha aggiunto dettagli dando alle hûrî un carattere molto sensuale. Non tutti gli esegeti hanno accettato questa idea prettamente materialista, al-Baydâwî dice che non si possono fare raffronti tra il godimento del cibo, delle hûrî, la condizione umana terrena è altra rispet-to a quella del Paradiso, certo è che la mentalità popolare musulmana è permeata da questi concetti. E’ solo in un hadîth che si parla delle 70 vergini che attendono tutti gli eletti, non solo i martiri.

DONNA E REINCARNAZIONE (Buddhismo)

Secondo il canone Pali delle scritture sacre buddhiste, un essere si reincarna donna se ha fatto qualcosa di grave nella vita precedente. Esiste il detto: “Ho ottenuto un corpo di donna perché ho commesso il male in una passata esistenza”

RISURREZIONE DEI CORPI UMANI (Cristianesimo)

Risurrezione del nostro corpo. Come sarà? La dottrina della risurrezione è presente anche nell’Ebraismo e nell’Islam.
Il Signore Gesù Cristo ce lo ha promesso: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno». (Gv 6,54). Appartiene al dogma della risurrezione che essa avvenga coi corpi che abbiamo ora (“cum suis propiis resurgent corporibus quae nunc gestant” – IV Concilio del Laterano – e “in hac carne, qua nunc vivimus” – Fidei Damasi). Il corpo sarà non solo specificamente lo stesso (il corpo che ho ora). Con questa affermazione, si evita ogni modo di pensare che suggerisca una metempsicosi o una tramigrazione delle anime da un corpo all’altro… Vi sono tre ipotesi teologiche sul come riavremo il nostro corpo il giorno della risurrezione. Gesù Cristo promette che questo avverrà alla fine dei tempi. In Giovanni 6:54 dice: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno”. Le ipotesi sulla nostra risurrezione sono:
Identità materiale – perché il corpo sia numericamente lo stesso, si richiederebbe che fosse composto nella stessa materia. Intesa in tutto il suo di rigore, la teoria difficilmente accettabile. D’altra parte, il principio secondo il quale un’identità materiale necessaria perché il corpo possa essere considerato lo stesso, è scientificamente assai discutibile. Dato il metabolismo costante del corpo umano, il mio corpo attuale ha rinnovato totalmente la sua materia da com’era sette anni or sono; e tuttavia, penso con ragione che sia rimasto realmente lo stesso corpo.
Identità formale – una teoria che si colloca all’estremo opposto sarebbe quella proposta, già nel Medio Evo da Durando di San Porciano (+ 1334). Durando suppone che, quale sia la materia di cui è composto un corpo, è il mio corpo per il fatto medesimo che esso s’unisce la mia anima… Bisogna riconoscere che, esposta in questo modo e senza altri particolari, questa teoria lascia l’impressione di una certa somiglianza con la teoria della trasmigrazione delle anime… Joseph Ratzinger [attuale papa Benedetto XVI, n.d.A.] pensa che non sia necessaria la stessa materia perché il corpo possa essere considerato lo stesso, e ha fatto notare che tutta la tradizione ecclesiastica (dottrinale e liturgica) impone come limite che il corpo risuscitato deve includere le reliquie dell’antico corpo terreno, se si esistono ancora come tali quando avviene la risurrezione. Tali “reliquie” saranno nuovamente animate dall’anima santa al corpo della quale appartennero. D’altra parte, insistendo sul fatto che la nostra risurrezione gloriosa non può essere spiegata senza un parallelismo con la risurrezione di Gesù, pare necessario affermare, come secondo limite, una certa continuità di somiglianza morfologica col corpo mortale.
Identità sostanziale – Alois Winklhofer ha proposto, recentemente una nuova ipotesi… di fronte a un cadavere che comincia a corrompersi, Dio sottrae e conserva separatamente questa sostanza non fenomenologica del corpo. Il cadavere, a dispetto della sua continuità fenomenologica col mio corpo, non sarebbe più, in questo caso, il mio corpo. Al contrario, partendo dalla sostanza non fenomenologica del mio corpo, Dio ricostruirebbe il mio corpo risuscitato; e appunto la permanenza di questa sostanza (l’identità sostanziale) farebbe sì che sia il mio corpo e non un altro.

Giorgio Nadali

 


La stretta di mano per riconoscere uomini, angeli e demoni

Dai membri della Chiesa di Gesù Cristo e dei Santi degli Ultimi Giorni (i Mormoni) è chiamato “Il segno certo del chiodo” (“The Sure Sign of the Nail”). E’ una particolare stretta di mano che si fa mettendo l’indice della mano sul polso dell’altra persona (nel punto dove si suppone Cristo fu crocifisso).

Serve per capire diverse cose della persona alla quale si dà la mano. Per prima cosa dare la mano normalmente. Una persona normale la stringerà. Provare ora la stretta di mano segreta. Se l’altra persona è un angelo, saprà come rispondervi correttamente. Se l’altra persona è un demone, sarà possibile scoprirlo dalla sensazione che genera.
Nella Doctrine & Covenants (sezione 129) del fondatore Joseph Smith, troviamo scritto:

1) Vi sono due tipi di esseri celesti, detti Angeli, che sono persone risorte, dotate di corpo in carne e ossa.
2) Per esempio, Gesù disse: “Toccatemi e guardate, un fantasma non ha carne e ossa come vedete che io ho».
3) In secondo luogo vi sono gli spiriti degli uomini giusti resi perfetti, coloro che non sono risorti, ma che ereditano la stessa gloria.
4) Quando un messaggero arriva dicendo che ha un messaggio da Dio, offrigli la tua mano e chiedigli di stringerti la mano.
5) Se dovesse essere un Angelo, lo farà, e lo sentirai dalla sua mano.
6) Se dovesse essere lo spirito di un uomo giusto reso perfetto, egli verrà con la sua gloria, perché questo è il solo modo in cui egli può apparire.
7) Chiedetegli di stringervi la mano, tuttavia egli non si muoverà, perché ciò è contrario all’ordine del cielo, che non può tradire, ugualmente però consegnerà il suo messaggio.
8) Se dovesse essere il diavolo in veste di angelo di luce, quando gli chiederete di stringervi la mano, egli vi offrirà la mano e voi non percepirete nulla, potrete dunque individuarlo.
9) Queste sono le tre grandi chiavi per sapere se ogni intervento è da Dio.

Joseph Smith, Nauvoo, Illinois, 9 Febbraio, 1843. History of the Church 5:267.

Giorgio Nadali


Chiese e droghe rituali

ATTENZIONE. OLTRE non approva l’uso di alcuna droga, anche a scopi rituali.

Le Chiese del Santo Daime di cui oggi esistono varie branche indipendenti – nascono dall’esperienza di Raimundo Irineu Serra (Mestre Irineu,1892-1971), un povero lavoratore afro-brasiliano della foresta amazzonica che nei primi anni 1920 entra in contatto con popolazioni indigene che da tempo immemorabile fanno uso di ayahuasca (parola quechua che significa “la corda degli spiriti”), una bevanda rituale estratta da un arbusto (Bannisteriopsis caapi) e da foglie (Psychotria viridis) della foresta, entrambe con un contenuto variabile di diversi alcaloidi che conferiscono alla bevanda un effetto allucinogeno. Sembra che Serra si ripromettesse anzitutto di ottenere dalle visioni indicazioni e vantaggi di tipo pratico.

Ben presto, però, gli appare uno spirito femminile che è insieme la Regina della Foresta della tradizione indigena e la Vergine Maria, e che lo guida nei passi che lo conducono alla fondazione di una religione. Nel 1930 Serra si trasferisce nella città di Rio Branco, dove fonda una Chiesa popolarmente nota come Alto Santo e che prenderà poi il nome di Centro de Illuminãção Cristã Luz Universal. La droga di questa chiesa è chiamata “daime”. Le Chiese del Santo Daime insistono sul fatto che il consumo del Daime ha senso solo all’interno di un rituale preciso, che si collega a una visione del mondo che affonda le sue radici insieme nella saggezza degli indios amazzonici e nel cristianesimo.

L’esperienza del Daime inizia con la preparazione rituale della bevanda, che consiste nella raccolta nella foresta e poi nella riduzione in poltiglia dell’arbusto (che rappresenta il principio maschile) e della foglia (che rappresenta il principio femminile). Strati alternati di quanto è stato ricavato rispettivamente dall’arbusto e dalla foglia sono disposti in un grande calderone e fatti bollire finché ne fuoriesce un liquido che è raccolto in bottiglie (dove si conserva per parecchio tempo). L’assunzione – che in piccole quantità nella comunità è proposta anche ai bambini – avviene nel quadro di cerimonie dove la musica e gli inni hanno una notevole importanza. Le foglie sono preparate da dodici uomini, che simboleggiano i dodici apostoli di Gesù. Il santo Daime è considerato un sacramento vero e proprio ed è il Sangue di Cristo. La droga assunta è la Dimetil Triptamina (DMT).

Illegale in Brasile, ma lecita solo a scopi religiosi per questa chiesa. Anche negli Stati Uniti è stata legalizzata solo per questi fedeli, dal 2009 ed è illegale per chiunque altro. La droga rimuove i filtri naturali del cervello e rende possibile – a loro dire – esperienze mistiche. La chiesa è di fatto un miscuglio tra cattolicesimo e sciamanesimo. Esiste una sede italiana ad Assisi (Perugia).

Recentemente l’uso rituale della ayahuasca – una droga allucinogena degli sciamani dell’Amazzoniasi è diffuso in Italia. La chiesa cristiana che utilizza regolarmente la ayahuasca è la União do VegetalIl Centro Spirituale Carità Unione del Vegetale è una società religiosa fondata il 22 luglio 1961 da José Gabriel da Costa, Gabriel Maestro, al fine di promuovere la pace e “lavorare per l’evoluzione umana verso il loro sviluppo spirituale” , come specificato nel suo statuto. L’organizzazione ha attualmente più di 18.000 membri, distribuiti in più di 200 unità in tutti gli stati del Brasile, Perù e in alcuni paesi in Europa, Nord America e Oceania.

Nelle sue sessioni, i membri bevono il tè Hoasca o Ayahuasca, come è anche noto, per effetto di concentrazione mentale. In Brasile, l’uso di Hoasca nei rituali religiosi era regolata il 25 gennaio 2010 dal Consiglio nazionale per la politica della droga, il governo federale brasiliano. Il presente regolamento stabilisce norme giuridiche per le istituzioni religiose che fanno un uso responsabile di tè. La Corte Suprema degli Stati Uniti, ha garantito all’Unione del Vegetale, all’unanimità, il diritto di utilizzare il tè Hoasca durante le sessioni di religiose in tutto il territorio degli Stati Uniti nel corso dell’udienza tenutasi il 21 Febbraio, 2006. Oltre alla attività religiose, l’UDV ha anche un servizio di beneficienza sociale. Il governo federale ha concesso il centro spirituale União do Vegetal Benefico il titolo di Entità di Pubblica Utilità sulla Gazzetta Ufficiale n. 139, del 22 luglio 1999-

La Peyote Church of God (Chiesa peyotica di Dio)

Formata a San Francisco nel 1971. La Chiesa dell’Albero della Vita Church of the Tree of Life, è una dei culti psichedelici sopravissuti. Come la Church of the Psychedelic Mystic (Chiesa del Mistico Psichedelico) la Native American Church (Chiesa dei Nativi Americani) e The Peyote Way Church of God (La Chiesa Peyotica di Dio). La setta crede che ognuno debba avere il diritto di fare di sé e di ogni adulto consenziente ciò che vuole, senza lederne i diritti. Incluso l’utilizzo di droghe psichedeliche. Queste ultime sono dono di Dio e vanno usate a piacimento. Dato che LSD e marijuana non sono legali, non vengono considerate come sacramenti. Altre sostanze allucinogene come kava, soma, peyote, ginseng, calamus e noce moscata sono ritenute sacramenti. La setta ha pubblicato The First Book of Sacraments, come guida agli allucinogeni legali. I rituali prevedono l’uso delle droghe come mezzi per l’ottenimento del massimo dell’esperienza (spirituale).

Verso il 1870 i nativi americani iniziarono ad usare nelle loro cerimonie religiose, la pianta allucinogena del peyote, un cactus che cresce selvaggiamente nel Sud Ovest degli Stati Uniti. I rituali prevedono l’ingestione dei “bottoni” della pianta grassa. Jonathan Koshiway, riteneva che il peyotismo affermasse sia le sue origini di nativo americano, sia le sue tendenze cristiane. Vedeva il peyote come un riflesso del pane e del vino sacramentali. Formò la First Born Church of Christ nel 1914, poi assorbita dalla Native American Church. La figura centrale di questo culto è lo sciamàno, che possiede i “bottoni” del peyote e controlla il loro uso.

I membri della tribù danno inizio al rituale andando a raccogliere la pianta allucinogena e consegnandola allo sciamano. Alla sera, nel tepee (la tenda) il “padre peyote” viene posto in un mucchietto a forma di luna crescente. I partecipanti pregano e poi mangiano e fumano il peyote sino all’alba. Nel 1899 lo stato dell’Oklahoma rese fuorilegge l’uso della pianta allucinogena, ma nel 1964 la Corte Suprema della California dichiarò che i nativi americani non dovevano essere privati del peyote per usi cerimoniali. Il culto conta 225.000 membri. La Peyote Way Church of God, fondata nel 1977 dal reverendo Immanuel Pardeathan Trujillo (ex membro del Native American Church che ammetteva solo nativi americani almeno al 25 percento), considera invece il peyote un mezzo per stabilire un contatto con la luce di Cristo. Non fumano insieme la droga. Piuttosto, durante un rituale chiamato Spirit Walk (Percorso dello Spirito), preceduto da un giorno di digiuno, un seguace assume la droga del peyote e trascorre un periodo di preghiera e di contemplazione nel deserto. Lo stato indotto dal peyote viene ritenuto in grado di purificare sia il corpo sia lo spirito.

Tratto da Giorgio Nadali, “Strano, ma Sacro”, Lampi di Stampa, Milano, 2003 e Giorgio Nadali, “Soprannaturale curioso”, Lampi di Stampa, Milano, 2010

Giorgio Nadali


Fede e capelli

Tempi difficili per i barbieri di ebrei ortodossi. È assolutamente proibito usare il rasoio per la barba, sia per la Torah, sia per la Mishna – uno dei testi fondamentali dell’ebraismo – sia per la Cabala, che la considera santa. Dopotutto tutti i profeti e i patriarchi avevano una folta barba. L’accorciarla costituisce un grave peccato, tranne per gli ebrei chassidici italiani. Per l’ebraismo ortodosso è anche obbligatorio per i maschi far crescere sin da piccolissimi i peyot (“boccoli”) ai lati delle tempie. I bambini ebrei delle famiglie ortodosse devono lasciarsi crescere i capelli sino all’età di tre anni. Poi, secondo la tradizione, il padre invita i membri della famiglia a tagliare ciascuno una ciocca di capelli al bambino, lasciando solo i peyot, che rimarranno lunghi per tutta la vita e che dopo la pubertà si uniranno alla barba.

È uno dei segni più caratteristici degli ebrei ortodossi. Forse l’unico che li distingue dagli altri. Infatti, gli ebrei sono quattordici milioni nel mondo, ma solo una piccola parte, circa due milioni, può essere riconosciuta subito anche visivamente. La maggioranza degli ebrei non ha segni distintivi esteriori. I peyot sono dapprima solo capelli (nell’età impubere) e poi misti a barba. Possono essere anche molto lunghi. Secondo Maimonide rasarsi ai lati delle tempie è un uso pagano.
Difficili sono le regole per i rasoi ebraici. Infatti, il rasoio elettrico Philishave con lame rotanti fu inventato proprio da un ebreo ortodosso olandese, Alexandre Horowitz. Un rasoio kosher, secondo la legge ebraica. Quello adatto per gli ebrei ortodossi, per una semplice regolata ai baffi quando interferiscono con la bocca nel mangiare, deve avere le lame secondarie rimosse. Le lame del rasoio non possono toccare la pelle in cinque punti. Esistono due vere e proprie enciclopedie di più di 1000 pagine solo sul come poter trattare religiosamente la santa barba.

Nel Cattolicesimo, con la lettera apostolica in forma di motu proprio Ministeria Quaedam “con la quale nella Chiesa Latina viene rinnovata la disciplina riguardante la prima tonsura, gli ordini minori e il suddiaconato”- del 15 agosto 1972 – papa Paolo VI abolì il rito della prima tonsura:
Da quel momento, tuttavia, alcuni istituti sono stati autorizzati a utilizzare la prima tonsura clericale, come ad esempio la fraternità sacerdotale di San Pietro (1988), l’Istituto di Cristo Sacerdote e Re (1990) e l’amministrazione apostolica personale San Giovanni Maria Vianney, (2001).

Nel Buddhismo la tonsura è una parte del rito di pabbajja per diventare un monaco. Questa tonsura è rinnovata spesso per mantenere il viso rasato e la cute del cuoio capelluto completamente calva. Alcuni monaci buddhisti cinesi hanno sei, nove o dodici punti neri nella parte superiore dello scalpo, come risultato della combustione del cuoio capelluto con la punta di un bastone d’incenso fumante. «Soli venite qui, radetevi il capo e la barba». Sono le parole del testo sacro Vinaya Pitaka. Un monaco buddhista si rade per la prima volta durante la cerimonia d’iniziazione. Rinunciando ai propri capelli e alla barba il novizio dimostra di essere pronto ad accettare uno stile di vita più semplice. La tonsura è una delle 227 regole della vita monastica descritta nel Vinaya Pitaka. Violare almeno novanta di queste regole vuol dire provocare una rinascita sfavorevole, come star seduto con una donna all’aperto uccidere un animale o avere una sedia o un letto con gambe più alte di venti centimetri.

Nell’Induismo, il concetto alla base è che i capelli costituiscono una simbolica offerta agli déi. In India – a Tirumala – c’è il tempio Tirumala Venkateswara nei pressi di Tirupati, dedicato al dio Venkateswara, dove i pellegrini si radono a zero. Il tempio raccoglie una tonnellata di capelli il giorno, poi venduti per sei milioni di dollari all’anno. Questo rappresenta un vero e proprio sacrificio di bellezza e in cambio ricevono benedizioni in proporzione al loro sacrificio. Il taglio di capelli (in sanscrito cuda karma, cuda karana) è uno dei tradizionali riti di passaggio detti samskara, eseguiti per i bambini: «secondo l’insegnamento dei testi rivelati, il Kudakarman (tonsura) deve essere eseguita, per ragioni di merito spirituale, da tutti gli uomini nati due volte nel primo o nel terzo anno». In alcune tradizioni la testa è completamente rasata mentre in altri è lasciato un piccolo ciuffo di capelli chiamato sikha. Nel movimento Hare Krishna di origine induista il sikha è l’appiglio per Krishna. Consiste in un ciuffetto di capelli risparmiato alla rasatura totale, segno di rinuncia alla vita mondana. Al momento di passare a miglior vita, Krishna afferra i suoi fedeli da questo ciuffetto posto poco sopra la nuca. Le vedove si radono a zero dopo la morte del marito e non è raro vedere tonsure sulla testa di un bambino dopo la morte di un genitore (di solito il padre).

Per i Sikh il Kes è una delle cinque regole con la “K”. La regola Kes prevede che i capelli e la barba non debbano mai essere tagliati perché sono un simbolo della perfezione divina nel creato. Non bisogna interferire quindi con le funzioni del corpo e avvolgere i capelli in un turbante e sono pettinati frequentemente con un Kangha (un’altra delle cinque “K”). Kangha è un pettine di legno o d’avorio per raccogliere i capelli lunghi e tenerli ordinati. È quindi simbolo di spiritualità controllata. Spesso un kirpan (pugnale) in miniatura è incastonato nel pettine. Le altre quattro K sono: Khacch, pantaloncini indossati sotto l’abito, simbolo di continenza. Kara, braccialetto d’acciaio al polso destro, simbolo della forza e dell’unione con Dio e gli altri Sikh. Kirpan, pugnale (per uso non violento) dai venti ai novanta centimetri. Simboleggia il coraggio nella difesa del giusto. Sono i cinque segni del khalsa (“l’esercito dei puri”). Un gruppo di fedeli Sikh che si dedicano al servizio militare della comunità. Il decimo guru (maestro), Guru Gobind Singh, nel 1699 fondò questo ramo ortodosso dei Sikh, religione professata da venti milioni di fedeli, in India. Gli uomini del khalsa si chiamano tutti Singh (“leone”) e le donne tutte kaur (“principessa”). L’undicesimo guru è il Wahe Guru, il guru supremo: Dio.

Fede e capelli anche per i bambini. La tribù keniota dei Gikuyu taglia i capelli a forma di croce ai bambini per spaventare gli spiriti malvagi che provocano le epidemie.

Nel battesimo cristiano ortodosso, subito dopo il rito fonte battesimale vi è la cresima, dove il bambino riceve il miron, l’olio Benedetto dal patriarca. Poi vi è la tonsura. Al bambino sono tagliate tre ciocche di capelli a forma di croce.

Da ultimo l’aspetto più doloroso. In India ad una ragazza che decida di consacrarsi suora gianista, durante la cerimonia di investitura vengono letteralmente strappati tutti i capelli a ciocche – senza anestesia – sino a renderla completamente calva. Da quel momento non potrà mai più vedere nè sentire la famiglia di origine.

Giorgio Nadali

 


Rituali estremi. 1. Nudismo sacro e mortificazione pubblica del pene. V.M. 18

ATTENZIONE! La mortificazione pubblica del pene è una pratica religiosa indù pericolosa! NON provate questa pratica, riservata a sadhu indù allenati! OLTRE non si assume alcuna responsabilità per i lettori che volessero mortificare pubblicamente il loro pene!

Sadhu significa “sant’uomo”. Sono gli asceti induisti. I Naga Baba sono i guerrieri asceti. Girano nudi (“naga”), ma non c’è nulla di erotico in tutto questo. Anche perché sono coperti della cenere bianca dei luoghi di cremazione su tutto il corpo. La nudità rappresenta l’ideale del sadhu e trasformano in potere psichico ogni pulsione sessuale. I Naga Baba fanno degli esercizi per aumentare la loro forza interiore, mortificando in pubblico il loro pene. Ad esempio con un esercizio detto chabi. Consiste nel tenere forzatamente il proprio pene in posizione abbassata. Un altro è il lingasana. Il sant’uomo si appende almeno trenta chili al pene e solleva questo peso con la sola forza del suo super prepuzio dotato di poteri sovrumani. Si tratta di un’elaborazione dell’esercizio yogico chiamato kara-lingi. Il suo scopo è di eliminare la capacità erettile dell’organo genitale e incanalare le forze sessuali in forma ascetica, trascendendola. In una parola, di aumentare la kundalini.

Una volta erano usate grosse catene, oggi delle corde con enormi mattoni appesi al pene. Non provate questo esercizio a casa se non siete dei Naga Baba, se siete circoncisi o non siete dotati di un super prepuzio. È facile vedere i Naga Baba praticare questo esercizio in pubblico durante il più grande raduno religioso del mondo: il Khumb Mela. Oltre cento milioni di fedeli in tre mesi presso il fiume sacro Gange, ogni dodici anni. Altri Naga Baba hanno fatto voto di non abbassare mai il loro braccio sinistro per dodici anni oppure di non sedersi mai. Uno di loro dorme in piedi, sorretto da corde, da dieci anni.

Il Gianismo (religione dell’India) ha due sette principali. Gli Svetambara (“vestito bianco”) rappresentano l’ala più liberale. Loro vi accompagneranno vestendo almeno un indumento. Ma quando il dovere lo impone, quelli della setta più radicale dei Digambara (“vestito di cielo”) vanno in giro nudi integrali. Questo per seguire l’esempio dello storico fondatore del Giainismo: Mahavira. (599 a.C.). Seguire il loro esempio religioso nudista vuol dire essere un perfetto nirgrantha, cioè “il nudo”. I Digambara sono solo 155.000 su quattro milioni di giainisti in India.
Anche i monaci jinakalpin, della setta Svetambara, circolano completamente nudi e usano il palmo delle mani come scodella. Questo fa parte dei voti monastici (mahavratas) che prevedono anche la castità assoluta, la proibizione di nuocere a qualsiasi essere vivente (insetti e microbi compresi), rubare e mentire. Comportarsi diversamente provocherebbe una reincarnazione, allontanando la salvezza (mokṣa).

Giorgio Nadali